Danno all’immagine della Pubblica Amministrazione e assenteismo fraudolento

Danno all’immagine della Pubblica Amministrazione e assenteismo fraudolento

Con la sentenza n. 61/2020, la Corte costituzionale dichiara l’illegittimità dell’art. 55-quater, comma 3-quater, secondo, terzo e quarto periodo, decreto legislativo n. 165/2001, per contrasto con l’art. 76 Cost.

Ad avviso della Corte, infatti, la materia di cui alla legge delega n. 124/2015 (in attuazione della quale il decreto legislativo n.116/2016 ha introdotto la disposizione ora dichiarata illegittima) è unicamente quella attinente al procedimento disciplinare, senza che possa ritenersi in essa contenuta l’introduzione di nuove fattispecie sostanziali in materia di responsabilità amministrativa e, in particolare, la specifica fattispecie del danno all’immagine arrecato dalle indebite assenze dal servizio dei dipendenti pubblici.

La pronuncia, quindi, offre l’occasione per riflettere sul processo di inasprimento del regime disciplinare del dipendente pubblico privatizzato, nonché sulle più recenti acquisizioni dottrinali e giurisprudenziali in materia di danno all’immagine della Pubblica Amministrazione e di sua quantificazione.

 

 

Falsa attestazione della presenza in servizio, flagranza e danno all’immagine della Pubblica Amministrazione.

La materia disciplinare e delle responsabilità nel pubblico impiego continua ad essere interessata da persistenti stravolgimenti.

E dove il legislatore delle frequenti riforme interviene, sopraggiunge il Giudice delle leggi, a correggere il tiro della convulsa e talvolta disattenta produzione legislativa in materia.

L’intervento della Corte costituzionale era atteso e, per certi aspetti, perfino auspicato.

Esso risponde ad una controtendenza maturata dalla dottrina lavoristica in antitesi al più recente filone normativo, rispondente ad “impellenze regolative”, e affidato dal legislatore alla decretazione d’urgenza o alle deleghe governative in itinere.

La censura di illegittimità costituzionale riguarda l’art. 55- quater, comma 3-quater, decreto legislativo n. 165/2001, come introdotto dal decreto legislativo n. 116/2016, in risposta ad alcuni fatti di cronaca giornalistica legati a casi di assenteismo e falsa attestazione di presenza in servizio, all’epoca selezionati dagli allora Governi in carica tra le principali finalità politiche delle rispettive legislature.

Declamate finalità politiche ed urgenza, quindi, hanno accomunato gli ultimi tre interventi legislativi nella materia disciplinare, determinando un definitivo allontanamento dalla linea di tendenza espressa nelle prime fasi della privatizzazione.

Così, quel modello unitario di responsabilità disciplinare che quest’ultima aveva delineato, appare ora divaricato, a causa di una corposa infiltrazione di principi e valori pubblicistici, o comunque terzi rispetto alle parti, difficilmente adattabili alla matrice contrattuale (comune con il privato) del rapporto di lavoro pubblico5.

Sicché, dopo quasi un decennio di criminalizzazione del lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, la pronuncia di illegittimità costituzionale in commento arriva come una boccata di ossigeno nella complessa rappresentazione del potere disciplinare del datore di lavoro pubblico dinnanzi ai fenomeni di assenteismo e di scarsa produttività.

Di fenomeni, cioè, che nella rappresentazione mediatica che ne è stata offerta hanno motivato, sul piano tecnico, un particolare rigore cautelare e procedurale, attraverso una diversificazione di termini e procedure rispetto ad altri illeciti, ancora sottoposti alle regole ordinarie di cui agli artt. 55 ss., decreto legislativo n. 165/2001, a prescindere dalla loro maggiore o minore gravità.

Al vaglio di legittimità costituzionale è sottoposto il comma 3-quater dell’art. 55- quater, decreto legislativo n. 165/2001, esempio emblematico dell’intreccio tra peculiare tecnica normativa ed incremento del disvalore assegnato alle condotte assenteistiche nelle pubbliche amministrazioni.

Come si vedrà, la Corte si sofferma sul primo dato, quello formale della tecnica normativa (violazione della delega): sebbene essa sorvoli sul dato sostanziale relativo alla quantificazione del danno all’immagine, la sentenza offre l’occasione per rimeditare sul processo di inasprimento delle responsabilità nel pubblico impiego e sulla coerenza sistematica che ne è derivata.

La disposizione disciplina una specifica fattispecie di responsabilità amministrativa collegata all’illecito disciplinare descritto dall’art. 55- quater, comma primo, decreto legislativo n. 165/2001, come introdotto dall’art. 69, comma primo decreto legislativo n. 150/2009, ovvero la falsa attestazione della presenza in servizio mediante l’alterazione dei sistemi di rilevamento e altre modalità fraudolente.

Si tratta, segnatamente, di una particolare forma di risarcimento del danno all’immagine della Pubblica Amministrazione, cagionato dal dipendente pubblico per indebite assenze dal servizio, e per falsa attestazione della presenza in servizio, nel caso in cui la condotta sia accertata in flagranza o mediante strumenti di sorveglianza o registrazione degli accessi e presenze.

La genesi del comma 3-quater dell’art. 55-quater è nota e costituisce ancora oggi l’apice dell’intransigenza mostrata nei confronti del fenomeno dell’assenteismo nel pubblico impiego.

La norma, infatti, viene inserita nel corpo del decreto legislativo n. 165/2001, in virtù della delega contenuta nell’art. 17, Legge  n. 124/2015 (“riordino della disciplina del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche”), il cui comma primo, lett. s), aveva disposto la “introduzione di norme in materia di responsabilità disciplinare dei pubblici dipendenti finalizzate ad accelerare e rendere concreto e certo nei tempi di espletamento e di conclusione l’esercizio dell’azione disciplinare”.

In attuazione di tale criterio, il decreto legislativo n. 116/2016 ha modificato l’art. 55- quater, decreto legislativo n. 165/2001 (“licenziamento disciplinare”), all’interno del quale ha introdotto una disciplina sostanziale e procedurale speciale in ipotesi di falsa attestazione della presenza in servizio. Il decreto attuativo, quindi, prosegue la stessa linea di tendenza del decreto legislativo n. 150/2009 che, in chiave propagandistica e con valenza simbolico-comunicativa, aveva attribuito una posizione centrale alla materia disciplinare, al fine di recuperare la produttività delle pubbliche amministrazioni, di contrastare l’assenteismo, di accrescere l’immagine di efficienza dell’azione pubblica.

Il decreto legislativo n. 116/2016, che è stato successivamente modificato dal decreto correttivo decreto legislativo n. 118/2017, costituisce dunque un’anticipazione rispetto all’attuazione più ampia e completa della delega del 2015, definitivamente conclusasi con il decreto legislativo n. 75/2017.

L’anticipazione ha risposto, essenzialmente, all’esigenza di fornire una risposta immediata ed efficace ad alcuni episodi di assenteismo in amministrazioni pubbliche che, ampiamente diffusi e denunciati dai media e dalla stampa giornalistica, avevano avuto larga presa nell’opinione pubblica.

Per tali ragioni il decreto legislativo n. 116/2016, che costituisce il “primo tempo” della riforma della materia disciplinare, verrà volgarmente definito “decreto contro i furbetti del cartellino”.

Esso consta di tre soli articoli che, intervenendo direttamente nell’art. 55-quater, vi aggiungono altri cinque commi (comma 1-bis, 3-bis, 3-ter, 3-quater, e 3-quinquies), che recano norme di carattere sostanziale e procedurale.

Sotto il profilo sostanziale, conformemente all’obbiettivo dichiarato dal Governo di “contrastare il fenomeno dell’assenteismo e dell’illegalità nella Pubblica amministrazione (causa di disuguaglianze, di inefficienza e di ingenti costi)”, il nuovo comma 1-bis specifica la fattispecie di “falsa attestazione della presenza in servizio”, già descritta dal comma primo, lett. a), con l’effetto di ampliarne l’ambito di applicazione.

A norma del “nuovo” comma 1-bis, costituisce “falsa attestazione della presenza in servizio” non soltanto “l’alterazione dei sistemi di rilevamento della presenza o … altre modalità fraudolente”, ma “qualunque modalità fraudolenta posta in essere, anche avvalendosi di terzi, per far risultare il dipendente in servizio o trarre in inganno l’amministrazione presso la quale il dipendente presta attività lavorativa circa il rispetto dell’orario di lavoro dello stesso”.

L’ultima parte della disposizione, peraltro, dispone che “della violazione risponde anche chi abbia agevolato con la propria condotta attiva o omissiva la condotta fraudolenta”.

Anch’essa, pertanto, realizza l’obbiettivo di ampliare l’ambito di applicazione della fattispecie, nel quale vanno ricondotti anche i comportamenti commissivi o omissivi di terzi che “agevolino” la condotta fraudolenta del dipendente che attesti falsamente la presenza in servizio.

Sotto il profilo procedurale, invece, il decreto legislativo n. 116/2016 ha introdotto due diverse novità: la sospensione cautelare obbligatoria dal servizio del dipendente che attesti falsamente la sua presenza in servizio ed il procedimento disciplinare accelerato.

Entrambi gli elementi, inediti, rispondono al criterio della delega connesso alla concretezza, certezza e rapidità nei tempi e nell’espletamento dell’azione disciplinare. Tutti e due gli istituti, inoltre, trovano applicazione solo nel caso di falsa attestazione della presenza in servizio, che sia accertata in flagranza ovvero mediante strumenti di sorveglianza o di registrazione degli accessi o delle presenze.

Infine, il comma 3-quater dell’art. 55-quater, introduce l’azione di responsabilità per danni all’immagine della Pubblica Amministrazione.

Si tratta di una disciplina analitica e puntuale di una procedura già esistente, di cui la disposizione in argomento avrebbe dovuto costituire una fattispecie speciale ed aggravata.

La denuncia al pubblico ministero ed alla procura della Corte dei conti va inoltrata in termini brevissimi, di quindici giorni, dall’avvio del procedimento disciplinare.

È previsto che la Corte dei conti che ne ravvisi i presupposti, emani un invito a dedurre entro tre mesi dalla conclusione della procedura di licenziamento e che l’azione di responsabilità venga esercitata, con modalità e termini previsti dalla Legge n. 19/1994, entro i centoventi giorni successivi alla denuncia, senza possibilità di proroga.

L’ammontare del danno è rimesso alla valutazione equitativa del giudice. L’eventuale condanna però non può essere inferiore alle sei mensilità dell’ultimo stipendio in godimento

La questione di illegittimità costituzionale e la violazione della delega legislativa

La questione di illegittimità costituzionale del comma 3-quater dell’art. 55-quater, decreto legislativo n. 165/2001 viene sollevata dalla Corte dei conti, sezione giurisdizionale regionale per l’Umbria, limitatamente all’ultimo periodo della disposizione.

Essa sorge nell’ambito del giudizio volto ad accertare la responsabilità contabile di una dipendente comunale che, in quattro occasioni, aveva attestato falsamente la propria presenza in servizio per un’ora (abbandonava il posto di lavoro alle 17, ma certificava la propria presenza fino alle 18).

Come richiesto dalla procura regionale, la Corte umbra riconosce la responsabilità amministrativa, e condanna la dipendente al risarcimento del danno patrimoniale, pari alla retribuzione indebitamente percepita, in assenza della prestazione lavorativa e del danno all’immagine della Pubblica Amministrazione (per un valore equitativamente stabilito di euro 20.000).

Ciò nonostante, la stessa Corte dei conti rimette la questione di illegittimità della disposizione applicata, limitatamente al profilo della quantificazione del danno all’immagine, con riferimento a tre parametri costituzionali:

l’art. 76 Cost. (violazione della delega di cui alla Legge n. 124/2015);

l’art. 3 Cost., 2 e 117, comma primo, Cost. (irragionevolezza della disposizione), anche in relazione all’art. 6 Cedu e all’art. 4, Prot. n. 7 Cedu (violazione del principio dell’offensività in concreto della condotta sanzionata).

Invero, la predeterminazione dell’ammontare della condanna in caso di accertamento del danno all’immagine, comunque non inferiore alle sei mensilità stipendiali, oltre che condizionata dalla rilevanza del fatto per i mezzi di informazione prescritta dal comma 3-quater dell’art. 55- quater, decreto legislativo n. 165/2001 impedirebbe alla valutazione equitativa del giudice di accertare la reale e concreta offensività della condotta e attribuirebbe valore sanzionatorio ad una disposizione che era stata introdotta al solo scopo di accelerare e rendere concreto e certo il potere disciplinare della Pubblica Amministrazione, senza avere abilitato l’esecutivo ad introdurre norme in materia di responsabilità amministrativa.

La Corte costituzionale accoglie il ricorso e dichiara l’illegittimità costituzionale, non solo dell’ultimo periodo del comma 3-quater, ma anche del secondo e del terzo periodo, che alla disposizione censurata sono funzionalmente collegati.

La pronuncia muove da un’interessante ricostruzione dell’istituto del danno all’immagine della Pubblica Amministrazione di cui la particolare fattispecie di danno all’immagine per indebite assenze dal servizio costituisce una specificazione.

La sua introduzione risale alla legge delega n. 15/2009:

l’art. 7 (“Principi e criteri in materia di sanzioni disciplinari e responsabilità dei dipendenti pubblici”) richiedeva che, nell’esercizio della delega, si modificasse la disciplina delle sanzioni disciplinari e della responsabilità dei dipendenti delle Pubbliche Amministrazioni, ai sensi dell’art. 55, decreto legislativo n. 165/2001, al fine di “potenziare il livello di efficienza degli uffici pubblici contrastando i fenomeni di scarsa produttività ed assenteismo”.

Il comma secondo disponeva che la delega si attenesse, tra l’altro, ai principi di cui alla lett. e) “prevedere, a carico del dipendente responsabile, l’obbligo del risarcimento del danno patrimoniale, pari al compenso corrisposto a titolo di retribuzione nei periodo per i quali sia accertata la mancata prestazione, nonché del danno all’immagine”.

Da questa delega la formulazione dell’art. 55-quinquies, decreto legislativo n. 165/2001 (“False attestazioni o certificazioni”), che obbliga il dipendente, “ferme le responsabilità penale e disciplinare e le relative sanzioni”, a risarcire il danno patrimoniale, pari al compenso corrisposto a titolo di retribuzione nei periodi per i quali sia accertata la mancata prestazione, “nonché il danno all’immagine subiti dall’amministrazione”.

Il decreto legislativo n. 150/2009, sempre in attuazione di quella delega, ha peraltro collegato la sanzione del licenziamento disciplinare all’assenteismo fraudolento, da applicare “comunque”, ai sensi dell’art. 55-quater, comma primo, lett. a), decreto legislativo n. 165/2001.

Ora, a differenza della Legge n. 15/2009, la Legge n. 124/2015 non ha mai disposto che il Governo si pronunciasse sulla materia della responsabilità amministrativa.

Invero, l’art. 16, Legge n. 124/2015 richiedeva che il Governo adottasse decreti legislativi di semplificazione in una serie di settori, tra i quali il “lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche e connessi profili di organizzazione amministrativa” (lett. a); mentre il successivo art. 17, Legge n. 124/2015 si limitava a richiedere la “introduzione di norme in materia di responsabilità disciplinare dei pubblici dipendenti finalizzate ad accelerare e rendere concreto e certo nei tempi di espletamento e di conclusione l’esercizio dell’azione disciplinare”.

La peculiare fattispecie di danno all’immagine aggravato, derivante da falsa attestazione della presenza in servizio di cui al comma 3-quater dell’art. 55-quater, viene introdotta in esecuzione di tale delega e in attuazione di tali principi (art. 1, comma primo, lett. b), decreto legislativo n. 116/2016), i quali riguardavano la sola materia disciplinare, senza potervi ricondurre in alcun modo l’introduzione di “nuove fattispecie sostanziali in materia di responsabilità amministrativa”.

Peraltro, aggiunge la Corte costituzionale, la circostanza per cui la delega nella materia disciplinare si inserisce in una più ampia delega diretta a dettare norme di semplificazione, sottrae al legislatore delegato quel margine di manovra necessario a potere arricchire l’oggetto della delega secondo criteri innovativi non contemplati dal delegante.

Il percorso logico della Corte è ineccepibile, al pari dei suoi esiti.

Condivisibilmente, infatti, la pronuncia di illegittimità non può che estendersi anche ai due periodi precedenti, in quanto rispetto a quello espressamente impugnato strettamente conseguenziali: afferma la Corte che il comma 3-quater dell’art. 55-quater, unitariamente considerato, prevede una “nuova fattispecie di natura sostanziale intrinsecamente collegata con l’avvio, la prosecuzione e la conclusione dell’azione di responsabilità da parte del procuratore della Corte dei conti”, ovvero “un’autonoma fattispecie di responsabilità amministrativa non consentita dalla legge di delega”.

Tuttavia, riconosciuto il contrasto con il primo parametro costituzionale indicato (violazione della delega ex art. 76 Cost.), la Corte non ha avuto motivo di esprimersi sugli ulteriori, e ben più interessanti, profili di contrasto sollevati con riferimento agli artt. 3, Cost., 2 e 117, comma primo, Cost. (irragionevolezza della disposizione), anche in relazione all’art. 6 CEDU e all’art. 4, Prot. n. 7 CEDU (violazione del principio dell’offensività in concreto della condotta sanzionata).

Si tratta di questioni cruciali, dalle quali sarebbe stato possibile ricavare indicazioni preziose nel già complesso dibattito in tema di danno all’immagine per assenteismo fraudolento.

Va ricordato infatti che la pronuncia di illegittimità riguarda il peculiare procedimento per fare valere la responsabilità amministrativa (aggravata) collegata all’illecito disciplinare, se accertato in flagranza o mediante sistemi di sorveglianza o registrazione degli accessi e presenza ex art. 55-quater, ma non la fattispecie del danno all’immagine connesso all’illecito della falsa attestazione in servizio disciplinato dall’art. 55-quinquies, decreto legislativo n. 165/2001.

Tale articolo, al comma secondo, si limitava a stabilire che “nei casi di cui al comma primo, il lavoratore, ferme la responsabilità penale e disciplinare e le relative sanzioni, è obbligato a risarcire il danno patrimoniale, pari al compenso corrisposto a titolo di retribuzione nei periodi per i quali sia accertata la mancata prestazione, nonché il danno all’immagine subiti dall’amministrazione”.

L’art. 16, decreto legislativo n. 75/2017 ha sostituito la parte finale della disposizione con la formula “il danno d’immagine di cui all’articolo 55-quater, comma 3-quater”.

Caduta quest’ultima norma, per illegittimità costituzionale, tornerà in vigore l’obbligo di risarcire il danno all’immagine della Pubblica Amministrazione sic et simpliciter, secondo le regole ordinarie vigenti prima del 2016, di cui, a questo punto, appare utile riassumere le coordinate essenziali.

Figura di matrice giurisprudenziale, il danno all’immagine della Pubblica Amministrazione va definito come quella forma di “danno che investe il rapporto che lega la comunità degli amministrati all’ente per il quale il dipendente infedele agisce”.

Esso postula il venir meno, da parte dei cittadini o anche di una categoria di soggetti (dipendenti, fruitori o prestatori di servizi od opere), del senso di affidamento e di fiducia nel corretto funzionamento dell’apparato della pubblica amministrazione, nonché del senso di “appartenenza all’istituzione” stessa.

Il danno, pertanto, coincide con l’offesa al rispetto di tutte quelle disposizioni poste a tutela delle competenze, delle funzioni e delle responsabilità dei soggetti pubblici e nella conseguente alterazione della loro identità quali istituzioni garanti, di fronte alla collettività tutta, di principi di trasparenza, legalità, imparzialità ed efficienza.

La sua prima disciplina legislativa risale all’art. 17, comma 30-ter, Legge n. 102/2009, che affidava alle Procure regionali della Corte dei conti l’esercizio dell’azione per il risarcimento dei danni all’immagine, nei soli casi previsti dall’art. 7Legge n. 97/2001, ovvero nei casi di condanna irrevocabile nei  confronti di dipendenti per i delitti contro la Pubblica Amministrazione, previsti nel Capo I del Titolo II del Libro II del codice penale. 

In tal caso, il Procuratore regionale della Corte dei conti, entro trenta giorni, dalla comunicazione della sentenza avrebbe promosso l’azione di responsabilità per danno erariale nei confronti del condannato.

La disposizione, quindi, aveva introdotto il principio della cosiddetta pregiudizialità penale, ed aveva altresì limitato la responsabilità amministrativa ai soli casi di sentenze penali di condanna passate in giudicato, per i (soli) reati propri, commessi dai pubblici impiegati, contro la Pubblica Amministrazione (ovvero “delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione”: corruzione, peculato, concussione, abuso d’ufficio..).

Il che, tra l’altro, comportava l’effetto discutibile che, per alcune voci di danno, fosse possibile agire simultaneamente all’accertamento della connessa responsabilità, mentre per il danno all’immagine si dovesse attendere l’esito del giudizio penale.

Tuttavia, l’esclusione dal campo di applicazione della responsabilità per danno all’immagine di reati diversi da quelli “propri” di cui all’art. 7Legge n. 97/2001 era stata ritenuta conforme a Costituzione: ad avviso della Corte costituzionale, infatti, la scelta del legislatore di non estendere l’azione risarcitoria anche in caso di condotte che costituiscano reati diversi da quelli espressamente previsti, va considerata non irragionevole, in quanto con essa si è inteso riconoscere la responsabilità erariale solo per quei reati che contemplino la Pubblica Amministrazione come soggetto passivo.

La tassatività degli specifici reati contro la Pubblica Amministrazione, accertati con sentenza passata in giudicato, è comunque venuta meno con l’entrata in vigore del Codice di giustizia contabile (decreto legislativo n. 174/2006), il cui art. 51, comma settimo, ha disposto la comunicazione della sentenza irrevocabile di condanna dei dipendenti delle Pubbliche Amministrazioni per i delitti a danno delle stesse al competente procuratore regionale della Corte dei conti, affinché promuova l’azione di responsabilità erariale nei  confronti del condannato. Il generico riferimento alla sentenza irrevocabile di condanna, senza alcun rinvio a precise tipologie di reati, è stato interpretato come il superamento della limitazione del campo di applicazione della responsabilità risarcitoria.

L’art. 4, comma primo, dell’allegato 3 al suddetto Codice, peraltro, ha abrogato l’art. 7Legge n. 97/2001.

Conclusasi (sebbene non del tutto) la “vicenda” della pregiudizialità penale per specifici reati, le questioni ancora aperte e più dibattute attengono alla natura dell’azione di responsabilità da danno all’immagine della Pubblica Amministrazione e alla relativa quantificazione.

Quanto all’azione di responsabilità, la Corte europea dei diritti dell’uomo ne ha escluso la natura penale, precisando altresì che la somma che il dipendente condannato sia tenuto a pagare ha natura di risarcimento e non di pena.

Su questo specifico aspetto, tuttavia, è intervenuta anche la Corte costituzionale che, in tale forma di risarcimento, ha rintracciato “una peculiare connotazione, rispetto alle altre forme di responsabilità…che deriva dalla accentuazione dei profili sanzionatori, rispetto a quelli risarcitori”.

Più complessa, invece, la questione della quantificazione del danno.

Va premesso, che secondo l’orientamento ormai consolidato, la liquidazione delle spese necessarie a ripristinare il prestigio leso dalla condotta illecita del pubblico dipendente deve tenere conto di alcuni parametri, tra cui, essenzialmente: l’entità del danno, la posizione funzionale dell’autore dell’illecito, la reiterazione della condotta, ovvero la sua sporadicità; la risonanza mediatica dell’evento.

La valutazione in via equitativa, pertanto, deve tenere nella debita considerazione le circostanze del caso concreto, tenuto conto che la lesione dell’immagine comporta la risarcibilità, oltre che del danno patrimoniale, anche del danno non patrimoniale, come danno conseguenza, costituito dal ridimensionamento della considerazione della persona giuridica, sia nell’agire delle persone fisiche che ne ricoprano gli organi, sia nella considerazione da parte dei consociati o di un settore di essi, con i quali l’ente normalmente interagisca. In ogni caso, si applica quanto disposto dall’art. 1, comma 1-sexies, Legge n. 20/1994, come introdotto dalla Legge n. 190/2012: “nel giudizio di responsabilità, l’entità del danno all’immagine della pubblica amministrazione derivante dalla commissione di un reato contro la stessa pubblica amministrazione accertato con sentenza passata in giudicato si presume, salva prova contraria, pari al doppio della somma di denaro o del valore patrimoniale di altra utilità illecitamente percepita dal dipendente”.

In questo quadro si inserisce la particolare fattispecie del danno all’immagine della Pubblica Amministrazione per assenteismo fraudolento aggravato, introdotta nel 2016.

Considerata una delle ipotesi settoriali che, con dubbia coerenza sistematica, il legislatore ha periodicamente introdotto, in deroga alla regola della pregiudizialità penale, essa si aggiunge alle altre ipotesi “speciali” di danno all’immagine della Pubblica Amministrazione.

Ovvero, quella disciplinata dall’art. 1, comma dodicesimo, Legge n. 190/2012 (Legge anticorruzione), che prescrive la perseguibilità del dirigente responsabile anticorruzione “in caso di commissione all’interno dell’amministrazione, di un reato di corruzione accertato con sentenza passata in giudicato, salvo che provi tutte le seguenti circostanze:

  1. a) di avere predisposto, prima della commissione del fatto, il piano di cui al comma quinto e di aver osservato le prescrizioni di cui ai commi nono e decimo del presente articolo;
  2. b) di aver vigilato sul funzionamento e sull’osservanza del piano”.

Nonché, quella contemplata dall’art. 46, decreto legislativo n. 33/2013 attinente agli obblighi di trasparenza, secondo cui “l’inadempimento degli obblighi di pubblicazione previsti dalla normativa vigente e il rifiuto, il differimento e la limitazione dell’accesso civico, al di fuori delle ipotesi previste dall’articolo 5-bis, costituiscono elemento di valutazione negativa della responsabilità dirigenziale a cui applicare la sanzione di cui all’articolo 47, comma 1-bis, ed eventuale causa di responsabilità per danno all’immagine dell’amministrazione, valutata ai fini della corresponsione della retribuzione di risultato e del trattamento accessorio collegato alla performance individuale dei responsabili”.

Si tratta, in entrambi i casi, di forme di responsabilità per fatto del terzo, che si giustificano per via della posizione apicale del soggetto responsabile nell’ambito della struttura amministrata.

Il decreto legislativo n. 116/2016 invece, incide proprio sulla quantificazione del danno all’immagine della Pubblica Amministrazione e realizza una “ulteriore fattispecie di danno erariale”, “enucleata da quella più generale già prevista dall’art. 55-quater” e dall’art. 55-quinquies, e che rispetto a questa presenta “indubbi aspetti peculiari”.

Al fine di inasprire il regime disciplinare contro l’assenteismo fraudolento di cui all’art. 55-quater, l’art. 1, comma 1, lett. b), decreto legislativo n. 116/2016 vi inserisce il comma 3-quater e stabilisce: tempi ridottissimi perché il Procuratore presso la Corte dei conti agisca sollecitamente per fare valere la responsabilità, senza attendere né l’instaurazione del processo penale, né la sentenza che lo definisce.

Precisa, infine, che la valutazione equitativa del giudice sarebbe stata vincolata ad una condanna non inferiore alle sei mensilità dell’ultimo stipendio in godimento e che avrebbe dovuto tenere conto della rilevanza del fatto per i mezzi di informazione.

Considerato che la maggior parte delle condanne nei  confronti dei dipendenti assenteisti infedeli ha tenuto conto sia del risarcimento del danno patrimoniale per l’indebita percezione della retribuzione, in assenza della corrispettiva prestazione del servizio (stante l’assenza fraudolenta), sia del danno all’immagine, nella magistratura contabile è sorto il dubbio se a tale fattispecie dovesse comunque applicarsi l’art. 1, comma 1- sexies, Legge n. 20/1994, o meno.

Per la specialità e a favore della piena autonomia del danno all’immagine da assenteismo fraudolento aggravato, si sono espresse, infine, le sezioni riunite della Corte dei conti, secondo le quali la stretta normativa realizzata per contrastare condotte illecite ed infedeli, idonee di per sé a ledere l’immagine della Pubblica Amministrazione, giustifica l’indipendenza della condanna erariale dalla accertata commissione di un reato ai danni di quest’ultima, attraverso una sentenza passata in giudicato.

Sicché “l’ipotesi di danno all’immagine prevista dall’art. 55- quater , comma 3-quater, decreto legislativo n. 165/2001 (…) ha natura speciale rispetto alle ipotesi di danno all’immagine derivante da reato (…), in quanto la condotta è descritta direttamente dal legislatore (…); viceversa, negli altri casi di danno all’immagine da reato la condotta rilevante è la medesima descritta dalle fattispecie di reato contro la pubblica amministrazione”.

Tali elementi di specialità (descrizione della fattispecie; criteri di determinazione del danno; peculiarità procedurali e processuali), escludono l’applicazione della disciplina generale del danno all’immagine derivante dalla commissione di un reato contro la Pubblica Amministrazione (e quindi la regola della pregiudizialità penale), nonché della sua quantificazione ai sensi dell’art. 1, comma 1-sexies, Legge n. 20/1994, che presuppone appunto il passaggio in giudicato della sentenza di condanna penale.

Quantificazione del danno, minimo edittale e clamor fori

Affermata la specialità del danno all’immagine per assenteismo fraudolento, va detto che sul peculiare regime del minimo edittale e sulla rilevanza mediatica dell’illecito, tanto la Corte dei conti umbra, quanto la Presidenza del Consiglio, si sono diffusamente soffermati, sostanzialmente ribadendo quanto già espresso il Consiglio di Stato, in fase di approvazione del decreto legislativo n. 116/2016.

A suo tempo, infatti, il Consiglio di Stato aveva avanzato dubbi tanto sulla compatibilità con la delega, che nessuna indicazione specifica sul punto aveva fornito, quanto sulla quantificazione della voce di danno.

Invero, la norma, nel prevedere che l’ammontare del danno fosse rimesso alla valutazione equitativa del giudice, ma che l’eventuale condanna non potesse essere inferiore alle sei mensilità dell’ultimo stipendio in godimento, fissava un minimo edittale che poneva dei limiti al potere equitativo del giudice, riconosciuto dalla norma medesima.

Inoltre, il parametro della “rilevanza che il fatto ha assunto per i mezzi di informazione”, rischiava di alterare la percezione delle reali finalità della riforma, nel momento in cui collega la quantificazione del danno ad elementi del tutto estranei alla condotta del dipendente, come nel caso di un parametro dichiaratamente mediatico.

Il Consiglio di Stato aveva, quindi, indicato di sostituire il riferimento alla “rilevanza del fatto per i mezzi di informazione” con la “diffusività dell’episodio nella collettività”.

La definitiva approvazione del testo del decreto legislativo n. 1162016, però, non ha tenuto conto di tali osservazioni.

Ed in effetti, costantemente ritenuto, nella giurisprudenza contabile, un elemento destinato a consentire la quantificazione del danno, e non un requisito costitutivo della fattispecie, il cosiddetto clamor fori costituisce tuttora una figura di difficile inquadramento.

Sicuramente la diffusione mediatica della notizia dell’illecito costituisce la piena concretizzazione della lesione all’immagine, in quanto solo attraverso la sua divulgazione si perpetra quella interruzione della fiducia che la collettività, all’interno della stessa amministrazione, ma anche all’esterno di essa, nutre nei confronti dell’istituzione pubblica e che ne determina il suo discredito nella società.

Certamente, quindi, “il clamore e la risonanza non integrano la lesione ma ne indicano la dimensione”, nel senso che l’offesa al prestigio e alla credibilità dell’ente pubblico è, innanzi tutto, determinata dalla dolosa violazione degli obblighi di correttezza e di fedeltà ai doveri d’ufficio.

Tuttavia, tale dato può anche prescindere da un grave inadempimento contrattuale, nonché dalla reale entità dell’illecito e della sua aggressività nei confronti del bene giuridico tutelato; entità che potrebbe non giustificare di per sé un’azione per fare valere la responsabilità amministrativa e che, per altro verso, potrebbe tradursi in un disincentivo dell’agire amministrativo e dei suoi dipendenti.

Sotto questo profilo, la necessaria valutazione del clamor fori ai fini della quantificazione del danno all’immagine costituisce la misura della considerazione contingente che il legislatore formula nei confronti della specifica fattispecie che, attraverso la responsabilità amministrativa, si intende perseguire.

Si tratta di scelte legislative ben precise che rispecchiano opzioni valoriali tradotte in forme di responsabilità da innescare in settori nevralgici dell’azione amministrativa, con l’evidente intento di contrastare fenomeni censurabili, mediante atti e procedure speciali.

Esse risultano la proiezione di una visione dell’attività amministrativa intesa sempre più al servizio del cittadino, capace di raggiungere certi standard di qualità prefissati, attraverso un contesto in cui la performance diviene misurabile e suscettibile di continui aggiustamenti.

La società cui questo tipo di amministrazione si rivolge viene percepita sensibile alla veloce diffusione di informazioni, attraverso reti e mass media, idonee a mettere a repentaglio i diritti delle personalità delle stesse persone giuridiche, la cui efficienza e credibilità vengono affidate al principio della cosiddetta accountability, ovvero al principio di responsabilità che lega le decisioni assunte e le conseguenze ottenute.

Nelle nuove figure del danno all’immagine, pertanto, il risarcimento non richiede la necessaria commissione del reato, ma la sola fattispecie astrattamente configurabile di reato e, nell’assegnare valore alla risonanza mediatica del fatto, tiene conto di una forma di controllo dall’esterno della pubblica collettività attraverso i mezzi di informazione.

Ecco perché, tutto sommato, la decisione della Corte convince: anche se limitata al dato formale della violazione della delega, la censura di illegittimità costituzionale investe, a ben vedere, la tecnica normativa.

Letta in maniera più ampia, essa indirettamente richiama l’attenzione sull’opportunità di riportare le scelte di valore più significative sul pubblico impiego nella loro sede elettiva (la legge ordinaria), che va privilegiata, in luogo di deleghe governative e/o d’urgenza, peraltro nemmeno rispettate in fase attuativa.

Il tema meriterebbe ulteriori approfondimenti.

Non vi è dubbio, infatti, che “rientra nella discrezionalità del legislatore” la scelta di “conformare le fattispecie di responsabilità amministrativa, valutando le esigenze cui si ritiene di dover fare fronte”; e che, in questa prospettiva, il legislatore ha, tra l’altro, il potere di delimitare l’ambito di rilevanza delle condotte perseguibili, stabilendo “nella combinazione di elementi restitutori e di deterrenza, quanto del rischio dell’attività debba restare a carico dell’apparato e quanto a carico del dipendente, nella ricerca di un punto di equilibrio tale da rendere, per dipendenti ed amministratori pubblici, la prospettiva della responsabilità ragione di stimolo e non di disincentivo”.

Tuttavia, la scelta di colpire con una forma di responsabilità amministrativa aggravata una determinata condotta verso cui è espresso particolare disvalore va comunque valutata alla luce della discrezionalità non arbitraria e della irragionevolezza.

E sulla irragionevolezza, il dubbio sulla riprovevolezza sociale e sulla valutazione comparativa del fenomeno dell’assenteismo e della falsa attestazione della presenza in servizio, rispetto ad altri e più gravi illeciti disciplinari sanzionati secondo le regole ordinarie, resta.

Così come resta il valore da attribuire al clamor fori, costantemente interpretato esclusivamente come elemento indicativo della dimensione della lesione arrecata all’immagine della P.A., che comporta, quindi, una valutazione sull’an del danno, da effettuarsi caso per caso, tenendo conto delle specifiche circostanze in cui in concreto si è svolta la vicenda illecita, in conformità con il principio di proporzionalità e di gradualità sanzionatoria prescritto per ogni tipo di diritto punitivo (penale ed amministrativo).

Considerazioni analoghe riguardano il minimo edittale.

Qui la Corte si limita a precisare come la norma contestata, fissando una soglia sanzionatoria inderogabile nel minimo, non permetterebbe di garantire il principio di proporzionalità della sanzione rispetto al caso concreto oggetto di contestazione disciplinare.

Invero, l’obbligatorietà del minimo edittale, in ipotesi di fondatezza della contestazione relativa al danno all’immagine, impedisce, di fatto, alla Corte di dare rilevanza ad altre circostanze peculiari e caratterizzanti il caso concreto, ed impone al giudicante la condanna dell’incolpato anche in presenza di condotte marginali e tenui che abbiano prodotto un pregiudizio minimo, con violazione del principio di proporzionalità e della gradualità sanzionatoria.

Sono, questi ultimi, principi che governano anche il giudizio di responsabilità contabile, la cui caratteristica tipica consiste nella autonomia della valutazione del comportamento contestato al dipendente pubblico: invero, l’accertamento del danno erariale può prendere in considerazione anche fatti e circostanze diversi rispetto a quelli acquisiti nell’eventuale giudizio civile o penale, atteso che anche nel giudizio di responsabilità contabile non avviene un’attività meramente ricognitiva di quanto già accertato da altra giurisdizione, ma una valutazione autonoma che si sostanzia su presupposti diversi da quelli considerati dal giudice ordinario, quali il rapporto di servizio, il comportamento dell’incolpato, l’elemento soggettivo in relazione all’organizzazione in cui il dipendente opera, il nesso di causalità ed il danno erariale.

Si tratta dell’ennesima declinazione del divieto di automatismi sanzionatori nella materia disciplinare e delle responsabilità nel pubblico impiego. Sotto questo profilo, quindi, la sentenza rievoca scenari noti.

Quasi come un movimento pendolare, essa attesta l’ennesimo cambio di passo nella lunga marcia del pubblico impiego privatizzato, che ricorda quello inaugurato in occasione della pronuncia di incostituzionalità della destituzione di diritto, tra le cause di cessazione del rapporto di lavoro pubblico.

L’auspicio, pertanto, è che, ora come allora, la pronuncia possa avviare un più meditato dibattito che restituisca alla materia disciplinare nel pubblico impiego una migliore coerenza sistematica.

L’intervento normativo del 2016 aveva sollevato fin troppe perplessità: nonostante la gravità di quello che è sempre stato troppo sbrigativamente liquidato come un fenomeno di malcostume, le contromisure adottate nel 2009 erano apparse più che sufficienti.

L’ulteriore stretta legislativa a pochi anni di distanza è stata percepita come un eccesso, animato da “affannosa smania regolativa”, non abbastanza attenta alle conseguenze sul piano sistematico, oltre che dettata da “ragioni propagandistiche, più che dall’effettiva necessità di una modifica legislativa”.

Da questo punto di vista l’eliminazione del danno all’immagine da assenteismo fraudolento aggravato può rappresentare una buona occasione di riflessione sulla deriva pubblicistica del rapporto di pubblico impiego, da tempo pervaso da valori terzi ed estranei alla dinamica contrattuale voluta dalla privatizzazione, di cui l’immagine, l’apparenza, e la rilevanza disciplinare dei codici etici costituiscono solo alcuni degli esempi più emblematici e sulla cui opportunità occorre ancora interrogarsi.