Canone occupazione strade centri abitati

Canone occupazione strade centri abitati

Il canone per l’occupazione delle strade che attraversano i centri abitati – Le incongruenze tra la nota dell’Istituto per la Finanza e l’Economia Locale e le disposizioni normative

In una “Nota di approfondimento” pubblicata il 14 aprile l’IFEL, Istituto per la Finanza e l’Economia Locale, Fondazione ANCI, giunge alla condivisibile conclusione che in materia di occupazione di suolo pubblico per installazione di mezzi pubblicitari l’articolo 1, comma 820, della legge n. 160 del 27 dicembre 2019, rubricata Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2020 e bilancio pluriennale per il triennio 2020-2022 si applica soltanto ai Comuni, ma al tempo stesso propone una interpretazione del comma 818, relativo ai centri abitati, assolutamente non condivisibile.

Articolo 1, comma 820 

820.  L’applicazione del canone dovuto per la diffusione dei messaggi pubblicitari di cui alla lett. b) del comma 819 esclude l’applicazione del canone dovuto per le occupazioni di cui alla lett. a) del medesimo comma.

comma 818 Nelle aree comunali si comprendono i tratti di strada situati all’interno di centri abitati di comuni con popolazione superiore a 10.000 abitanti, individuabili a norma dell’articolo 2, comma settimo, del codice della strada, di cui al decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285.

comma 819 

Il presupposto del canone è:

a) l’occupazione anche abusiva delle aree appartenenti al demanio o al patrimonio indisponibile degli enti e degli spazi soprastanti o sottostanti il suolo pubblico;

b) la diffusione di messaggi pubblicitari, anche abusiva, mediante impianti installati su aree appartenenti al demanio o al patrimonio indisponibile degli enti, su beni privati laddove siano visibili da luogo pubblico o aperto al pubblico del territorio comunale, ovvero all’esterno di veicoli adibiti a uso pubblico o a uso privato.

Innanzitutto, non è proprio sostenibile l’affermazione IFEL secondo cui “Dalle norme sopra richiamate, dunque, emerge che nei Comuni con popolazione superiore a diecimila abitanti, le strade sono tutte comunali. Nei Comuni con popolazione inferiore ai diecimila abitanti invece le strade provinciali rimangono di proprietà della Provincia”, perché non è vero: il parametro di riferimento fissato nel codice della strada per stabilire la proprietà (l’appartenenza) delle strade è dato dalla popolazione del centro abitato, non del Comune nel suo complesso.

Lo dice chiaramente l’articolo 2, comma settimo, del codice della strada: “Le strade urbane di cui al comma secondo, lettere D, E e F, sono sempre comunali quando siano situate nell’interno dei centri abitati, eccettuati i tratti interni di strade statali, regionali o provinciali che attraversano centri abitati con popolazione non superiore a diecimila abitanti”.

E’ quindi del tutto errato sostenere che “Nei Comuni con popolazione inferiore ai diecimila abitanti invece le strade provinciali rimangono di proprietà della Provincia”, perché appartengono al demanio provinciale anche i tratti delle strade provinciali che intersecano centri abitati con popolazione fino a 10.000 abitanti di Comuni con popolazione complessiva superiore a 10.000 abitanti: ai fini della proprietà delle strade conta la popolazione dello specifico centro abitato che viene intersecato, non la popolazione complessiva del Comune.

D’altra parte, anche l’affermazione immediatamente precedente secondo cui «Peraltro, la previsione contenuta nel comma 818 della legge n. 160 del 2019, si pone in continuità con quanto disposto dall’art. 38, comma quarto, del decreto legislativo 15 novembre 1993, n. 507, Revisione ed armonizzazione dell’imposta comunale sulla pubblicità e del diritto sulle pubbliche affissioni, della tassa per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche dei comuni e delle province nonché della tassa per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani a norma dell’art. 4 della legge 23 ottobre 1992, n. 421, concernente il riordino della finanza territoriale che disponeva che le “occupazione realizzate su tratti di strade statali o provinciali che attraversano il centro abitato di comuni con popolazione superiore a diecimila abitanti sono soggette all’imposizione da parte dei comuni medesimi”» è smentita dal fatto che l’art. 38, comma quarto, decreto legislativo 507/1993, diversamente dal comma 818 legge n. 160 del 2019, non menzionava e quindi non rinviava come invece fa il comma 818, all’articolo 2, comma settimo, citato codice.

Decreto Legislativo 15 novembre 1993, n. 507 – Articolo 38

articolo abrogato dalla legge 27 dicembre 2019, n. 160

Aggiornamento (33)

La legge 27 dicembre 2019, n. 160 ha disposto (con l’art. 1, comma 847) che “Restano ferme le disposizioni inerenti alla pubblicità in ambito ferroviario e quelle che disciplinano la propaganda

elettorale. Il capo II del decreto legislativo n. 507 del 1993 rimane come riferimento per la determinazione della tassa per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche appartenenti alle regioni di cui agli articoli 5 della legge 16 maggio 1970, n. 281, e 8 del decreto legislativo 6 maggio 2011, n. 68.

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Aggiornamento (34)

Il decreto-legge 30 dicembre 2019, n. 162, convertito con modificazioni dalla legge 28 febbraio 2020, n. 8, nel modificare l’art. 1, comma 847 della legge 27 dicembre 2019, n. 160, ha conseguentemente disposto (con l’art. 4, comma 3-quater) che “Limitatamente all’anno 2020 non ha effetto l’abrogazione disposta dal comma 847 dell’articolo 1 della legge 27 dicembre 2019, n. 160; si applicano, per il medesimo anno, l’imposta comunale sulla pubblicità e il diritto sulle pubbliche

affissioni nonché la tassa per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche, di cui rispettivamente ai capi I e II del decreto legislativo 15 novembre 1993, n. 507, nonché il canone per l’installazione dei mezzi pubblicitari e il canone per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche, di cui rispettivamente agli articoli 62 e 63 del decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446.

Per i centri abitati dispone l’articolo 2, comma settimo, del codice della strada

Il comma 818 della citata legge n. 160/2019, infatti, rinvia espressamente all’articolo 2, comma settimo, del codice della strada, con la formula “… individuabili a norma dell’art. 2, comma settimo, …, il quale: non individua i centri abitati,  in quanto i centri abitati sono definiti e quindi individuati dall’articolo 3 del codice della strada; non stabilisce come si delimitano i centri abitati, perché di questo si occupa l’articolo 4 del citato codice, ma individua proprio le strade comunali.

Il regime proprietario delle strade che intersecano i centri abitati è il seguente: i tratti delle strade provinciali che attraversano centri abitati con popolazione superiore a 10.000 abitanti sono comunali ex lege; i tratti delle strade provinciali che attraversano centri abitati con popolazione fino a 10.000 abitanti restano provinciali.

Il comma 818 ha una formulazione imprecisa: “Nelle aree comunali si comprendono i tratti di strada situati all’interno di centri abitati di comuni con popolazione superiore a 10.000 abitanti, individuabili a norma dell’articolo 2, comma settimo, del codice della strada, di cui al decreto legislativo 30 aprile 1992, n.285”.

Come si legge, nel testo si fa riferimento alla popolazione del Comune, ma poi si richiama la disposizione del codice della strada che, invece, fa riferimento ai centri abitati.

Ergo, stante il chiaro rinvio all’articolo 2, comma settimo, è logica l’interpretazione che mette insieme la parte “Nelle aree comunali si comprendono i tratti di strada” con la parte “individuabili a norma dell’articolo 2, comma settimo, del codice della strada, di cui al decreto legislativo 30 aprile 1992, n.285”, perché, come si è visto, sono proprio i tratti di strada quelli che individua l’articolo 2, comma settimo, nel senso che si è detto: solo i tratti di strada intersecanti centri abitati con popolazione superiore a 10.000 abitanti sono comunali.

Ciò è dimostrato anche dal fatto che sempre il più volte citato articolo 2, comma settimo è costruito come una negazione: “Le strade urbane di cui al comma secondo, lettere D, E e F, sono sempre comunali quando siano situate nell’interno dei centri abitati, eccettuati i tratti interni di strade statali, regionali o provinciali che attraversano centri abitati con popolazione non superiore a diecimila abitanti”.

Come si farebbe a costruire una affermazione da una negazione?

Di ciò si ha una conferma interna alla stessa Legge 160/2019, che al successivo comma 837, in materia di canone mercatale, fa sempre riferimento all’articolo 2, comma settimo: “A decorrere dal 1° gennaio 2021 i comuni e le città metropolitane istituiscono, con proprio regolamento adottato ai sensi dell’articolo 52 del decreto legislativo n. 446 del 1997, il canone di concessione per l’occupazione delle aree e degli spazi appartenenti al demanio o al patrimonio indisponibile, destinati a mercati realizzati anche in strutture attrezzate.

Ai fini dell’applicazione del canone, si comprendono nelle aree comunali anche i tratti di strada situati all’interno di centri abitati con popolazione superiore a 10.000 abitanti, di cui all’articolo 2, comma settimo, del codice della strada. 

Questa disposizione relativa al canone mercatale dimostra anche quanto sia errata e quindi insostenibile la tesi dell’IFEL che fonda, addirittura, la proprietà dei tratti di strada che intersecano centri abitati sul requisito della popolazione complessiva del Comune anziché del centro abitato: non è possibile far dipendere il regime di proprietà delle strade, che è stabilito esclusivamente dal codice della strada e a cui peraltro fanno rinvio sia il comma 818, sia il comma 837 dal tipo di canone da riscuotere.

Il regime di proprietà delle strade è unico ed è stabilito dall’articolo 2, comma settimo cui entrambe le disposizioni fanno rinvio.

Mentre il comma 837 sul canone mercatale indica ovvero descrive direttamente la fattispecie, sì che per il rinvio usa la formula “di cui all’articolo 2, comma settimo, il comma 818 non indica direttamente la fattispecie e per il rinvio usa la formula “individuabili a norma dell’articolo 2, comma settimo, ma il rinvio è sempre e comunque allo stesso articolo (art. 2/7), ai sensi del quale, come abbiamo visto, “Le strade urbane di cui al comma secondo, lettere D, E e F, sono sempre comunali quando siano situate nell’interno dei centri abitati, eccettuati i tratti interni di strade statali, regionali o provinciali che attraversano centri abitati con popolazione non superiore a diecimila abitanti”.

E, d’altra parte, con riferimento alla formulazione del comma 818, i centri abitati con popolazione superiore a 10.000 abitanti non possono che essere situati in Comuni aventi popolazione superiore ai 10.000 abitanti  

Una norma secondo cui “si comprendono nelle aree comunali” anche le strade comunali potrebbe sembrare tautologica, ma deriva della storia della TOSAP e poi del COSAP: è infatti nella disciplina della TOSAP (articolo 38, comma quarto, decreto legislativo n. 507/1993, che si trova il riferimento al Comune, e non al centro abitato, con popolazione superiore a 10.000 abitanti, mentre nella disciplina COSAP (articolo 63, comma primo, Decreto Legislativo 15 dicembre 1997, n. 446 come sostituito dall’articolo 31, comma 20, Legge n. 448 del 23 dicembre 1998, il riferimento è al centro abitato, e non al Comune, con popolazione superiore a 10.000 abitanti e si fa espressamente rinvio all’articolo 2, comma settimo.

Decreto legislativo n. 446 del 15 dicembre 1997 – articolo 63

Canone per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche

1. Le province e i comuni possono, con regolamento adottato a norma dell’articolo 52 prevedere che l’occupazione, sia permanente che temporanea di strade, aree e relativi spazi soprastanti e sottostanti appartenenti al proprio demanio o patrimonio indisponibile, comprese le aree destinate a mercati anche attrezzati, sia assoggettata al pagamento di un canone da parte del titolare della concessione, determinato nel medesimo atto di concessione in base a tariffa. Il pagamento del canone può essere anche previsto per l’occupazione di aree private soggette a servitù di pubblico passaggio costituita nei modi di legge. Agli effetti del presente comma si comprendono nelle aree comunali i tratti di strada situati all’interno di centri abitati con popolazione superiore a diecimila abitanti individuabili a norma dell’articolo 1, comma 7, del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285.

Legge n. 448 del 23 dicembre 1988 – articolo 31

Istituzione dell’imposta regionale sulle attività produttive, revisione degli scaglioni, delle aliquote e delle detrazioni dell’Irpef e istituzione di una addizionale regionale a tale imposta, nonché riordino della disciplina dei tributi locali

20. Il comma 1 dell’articolo 63 del decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446, è sostituito dal seguente:

“1. I comuni e le province possono, con regolamento adottato a norma dell’articolo 52, escludere l’applicazione, nel proprio territorio, della tassa per occupazione di spazi ed aree pubbliche, di cui al capo II del decreto legislativo 15 novembre 1993, n. 507. I comuni e le province possono, con regolamento adottato a norma dell’articolo 52, prevedere che l’occupazione, sia permanente che temporanea, di strade, aree e relativi spazi soprastanti e sottostanti appartenenti al proprio demanio o patrimonio indisponibile, comprese le aree

destinate a mercati anche attrezzati, sia assoggettata, in sostituzione della tassa per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche, al pagamento di un canone da parte del titolare della concessione, determinato nel medesimo atto di concessione in base a tariffa. Il pagamento del canone può essere anche previsto per l’occupazione di aree private soggette a servitù di pubblico passaggio costituita nei modi di legge. Agli effetti del presente comma si comprendono nelle aree comunali i tratti di strada situati all’interno di centri abitati con popolazione superiore a diecimila abitanti, individuabili a norma dell’articolo 2, comma 7, del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285″.

Già nella disciplina COSAP, di natura patrimoniale, si realizzava quindi perfetta corrispondenza tra regime di proprietà del bene e spettanza del canone: il canone per l’occupazione del suolo pubblico spettava all’Ente proprietario del suolo, sì che, rompendo con la norma tributaria di cui alla TOSAP, si faceva rinvio all’articolo 2, comma settimo.

La normativa sul canone unico, qualificato come patrimoniale e non tributario dalla Legge 160/2019, non può che aderire sul punto alla prospettiva già del COSAP ed infatti fa anch’essa rinvio all’articolo 2, comma settimo.

D’altra parte, quale sarebbe la ragionevolezza di un canone patrimoniale che venisse riscosso sul presupposto occupazionale, ad es. occupazione suolo pubblico per un accesso, dall’Ente a cui il sedime demaniale occupato non appartiene?

Si ricordi, a tale riguardo, il presupposto di cui al comma 819: “l’occupazione, anche abusiva, delle aree appartenenti al demanio o al patrimonio indisponibile degli enti e degli spazi soprastanti o sottostanti il suolo pubblico”.

Né avrebbe senso dire che nei centri abitati di che trattasi il canone per l’occupazione di sedime demaniale provinciale spetterebbe al Comune perché è il Comune che rilascia le autorizzazioni e concessioni stradali previo nulla osta della Provincia: il presupposto del canone non è il rilascio delle concessioni e delle autorizzazioni, bensì, come appena detto, “l’occupazione, anche abusiva, delle aree appartenenti al demanio o al patrimonio indisponibile degli enti e degli spazi soprastanti o sottostanti il suolo pubblico” (comma 819, articolo 1, legge 160/2019).

E questo significa che il canone di occupazione riguardante, ad es., l’accesso da una strada provinciale, per occupazione di sedime demaniale provinciale, è dovuto sempre e comunque alla Provincia ancorché l’autorizzazione, in ambito di centro abitato, venga rilasciata dal Comune.

La conclusione dell’IFEL di cui alla “Nota di approfondimento” pubblicata il 14 aprile dovrebbe pertanto essere corretta nel senso che: “le occupazioni di suolo pubblico con mezzi pubblicitari su strade provinciali, sia al di fuori dei centri abitati sia all’interno dei centri abitati con popolazione fino a 10 mila abitanti, siano soggette sia al canone per l’occupazione di suolo pubblico, dovuto alla Provincia o alla Città metropolitana, sia al canone per la diffusione dei messaggi pubblicitari, dovuto al Comune”.

Conclusione che, per tutte le altre occupazioni, diverse dagli impianti pubblicitari, va declinata nel senso che il canone spetta esclusivamente alla Provincia quando trattasi di strade provinciali, che tali rimangono anche quando intersecano centri abitati con popolazione fino a 10.000 abitanti.

D’altra parte, come già detto, quale sarebbe la ragionevolezza di un canone patrimoniale che venisse riscosso sul presupposto occupazionale dall’Ente a cui il sedime demaniale occupato non appartiene, oltretutto sottraendo l’introito all’Ente a cui invece quel sedime appartiene?

Ai sensi degli artt. 119 Cost., 824 e 826 c.c., ciascun Comune, ciascuna Provincia, etc., ha un proprio demanio ed un proprio patrimonio per la cui occupazione da parte di terzi non può che ottenere un ristoro, ma questo ristoro non può che andare all’Ente a cui appartiene la porzione di demanio o patrimonio occupata. Soluzioni diverse sarebbero in contrasto con l’articolo citato della Costituzione.

Costituzione – articolo 119

I Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni hanno autonomia finanziaria di entrata e di spesa.

I Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni hanno risorse autonome. Stabiliscono e applicano tributi ed entrate propri, in armonia con la Costituzione e secondo i principi di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario. Dispongono di compartecipazioni al gettito di tributi erariali riferibile al loro territorio. La legge dello Stato istituisce un fondo perequativo, senza vincoli di destinazione, per i territori con minore capacità fiscale per abitante.

Le risorse derivanti dalle fonti di cui ai commi precedenti consentono ai Comuni, alle Province, alle Città metropolitane e alle Regioni di finanziare integralmente le funzioni pubbliche loro attribuite.

Per promuovere lo sviluppo economico, la coesione e la solidarietà sociale, per rimuovere gli squilibri economici e sociali, per favorire l’effettivo esercizio dei diritti della persona, o per provvedere a scopi diversi dal normale esercizio delle loro funzioni, lo Stato destina risorse aggiuntive ed effettua interventi speciali in favore di determinati Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni.

I Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni hanno un proprio patrimonio, attribuito secondo i principi generali determinati dalla legge dello Stato.

Possono ricorrere all’indebitamento solo per finanziare spese di investimento. È esclusa ogni garanzia dello Stato sui prestiti dagli stessi contratti

L’articolo citato merita una riflessione almeno per quanto afferisce la ratio del suo significato. L’articolo, modificato con legge costituzionale del 18 ottobre 2001, introduce l’autonomia finanziaria di spesa e di entrata non più esclusivamente per le Regioni, ma anche per Comuni, Province e Città metropolitane.

Per quanto riguarda le entrate, queste sono garantite dai tributi propri decisi dagli enti territoriali, definiti «secondo i principi di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario»; dalla compartecipazione al gettito di tributi erariali (ciò prevede che una quota di alcuni tributi riscossi dallo Stato venga destinata agli enti territoriali); dai trasferimenti, ovvero da contributi erogati dallo Stato a quelle regioni «con minore capacità fiscale per abitante».

Circa le spese, sempre l’articolo in commento dispone che le tre entrate indicate sopra debbano essere in grado di finanziare l’esercizio delle funzioni degli enti territoriali: in via eccezionale, lo Stato può concedere risorse aggiuntive o interventi speciali volti a finanziare attività straordinarie.

Ma perché…?

Le tasse che pagano i cittadini hanno dunque varie destinazioni: in alcuni casi finiscono direttamente nelle casse di un ente locale, in altri casi dello Stato.

Dallo Stato poi possono essere trasferite agli enti locali.

Una parte dell’opinione pubblica sostiene che questo sistema penalizza i contribuenti più “generosi” perché buona parte delle loro tasse ha una destinazione diversa da quella di attività e servizi sul loro territorio di residenza.

Secondo un’altra parte dell’opinione pubblica, invece, proprio perché l’Italia è uno Stato unitario le tasse devono servire al benessere di tutti e non solo di alcuni.

In ogni caso, l’attuale sistema nasce dalla progressiva concessione di autonomie agli enti locali, ma risente anche della crisi economica e delle scelte politiche che nel corso degli anni hanno portato a costanti cambiamenti nella definizione delle imposte locali.

Codice Civile – articolo 824

I beni della specie di quelli indicati dal secondo comma dell’articolo 822, se appartengono alle province o ai comuni, sono soggetti al regime del demanio pubblico.

Allo stesso regime sono soggetti i cimiteri e i mercati comunali

Anche questo articolo merita un rapido approfondimento.

Il codice attuale, al pari di quello abrogato, ha voluto riservare la denominazione di pubblico demanio soltanto ai beni appartenenti allo Stato a titolo di proprietà pubblica.

La tradizione e il diritto positivo hanno sempre ammesso, accanto ai beni di proprietà pubblica dello Stato, anche quelli spettanti per lo stesso titolo alle province e ai comuni.

Per tale ragione l’articolo in commento non parla di demanio provinciale e comunale, ma di beni delle province e dei comuni «soggetti al regime del demanio pubblico»: si tratta più di una equiparazione che di una unificazione di condizione giuridica.

Questa equiparazione è fatta, come si vede, soltanto nei riguardi dei beni propri delle province e dei comuni e non anche di altri enti pubblici La ragione di questa limitazione deve ricercarsi in una costante tradizione, che a sua volta trova spiegazione nel concetto stesso della proprietà pubblica: essendo questa un diritto reale, per la cui tutela sono necessari poteri di polizia e di sovranità di carattere assoluto, esercitabili cioè erga omnes, ed essendo tali poteri propri soltanto degli enti territoriali, ne consegue che soltanto questi nel nostro diritto, oltre lo Stato, la provincia e il comune, possono essere soggetti di proprietà pubblica.

Quanto ai beni che possono formare oggetto di questo diritto fra quelli appartenenti alle province e ai comuni, essi sono gli stessi, per natura e per destinazione economica, che possono far parte del demanio dello Stato, ad eccezione naturalmente di quelli che non possono appartenere se non a quest’ultimo.

Di fatto, non tutti i beni indicati nel secondo comma dell’articolo appartengono, oltre che allo Stato, ai due enti minori, si ricordino le strade ferrate e gli aeroporti: però, ove ciò in futuro si verificasse, sarebbero disciplinati senz’altro dall’art. 825 del codice civile.

Ciò è già avvenuto per quanto riguarda le strade, gli acquedotti gli immobili di interesse storico ed artistico, le raccolte dei musei, delle pinacoteche, degli archivi e delle biblioteche, beni e istituti tutti che possono essere, oltre che governativi, anche provinciali e comunali.

Le strade hanno sempre costituito la parte più notevole dei beni pubblici dei due enti minori: quali fra esse appartengano alle provincie e quali a comuni risulta dagli art. 13-18 della Legge sui lavori pubblici; alla classificazione sono state recate modificazioni, soprattutto ai fini della manutenzione dal decreto legislativo 15 novembre 1923, n. 2506.

Notevole è stata l’inclusione degli acquedotti nel demanio dei due enti territoriali.

Oltre all’importanza che può avere per la conservazione di questi beni, essa presenta un interesse particolare per la soluzione della questione della demanialità delle fontane comunali, demanialità che resta chiaramente stabilita.

È utile a questo proposito mettere tale soluzione in rapporto con quella adottata dal codice riguardo al problema dell’ammissibilità di un demanio idrico comunale, problema molto discusso dalla dottrina.

Per la prima parte dell’art. 823 del codice civile le acque pubbliche o demaniali non possono appartenere se non al demanio dello Stato: ogni altro soggetto, e quindi anche il comune, non può essere proprietario se non di acque che mancano di quei caratteri di utilità pubblica che ne determinano la demanialità e quindi a titolo di proprietà privata.

Risulta, però, dall’articolo in esame che le acque derivate dai corsi pubblici, i vasi per il loro trasporto e le fontane per la loro distribuzione, hanno carattere demaniale non solo quando appartengono allo Stato, ma anche se propri delle provincie o dei comuni.

Il capoverso dell’articolo contempla due categorie di beni di esclusivo demanio comunale: i cimiteri e i mercati.

Per i primi la questione è stata sempre discussa e variamente risolta: il legislatore, volendo portare certezza su questo punto, ha preferito adottare la soluzione che più si concilia con le esigenze etiche ed igieniche relative alla conservazione dei cimiteri.

Quanto ai mercati, la disciplina pubblicistica è giustificata dall’uso pubblico cui sono adibiti.

Codice Civile – articolo 826

Patrimonio dello Stato, delle province e dei comuni

I beni appartenenti allo Stato, alle province e ai comuni, i quali non siano della specie di quelli indicati dagli articoli precedenti, costituiscono il patrimonio dello Stato o, rispettivamente, delle province e dei comuni.

Fanno parte del patrimonio indisponibile dello Stato le foreste che a norma delle leggi in materia costituiscono il demanio forestale dello Stato, le miniere, le cave e torbiere quando la disponibilità ne è sottratta al proprietario del fondo, le cose d’interesse storico, archeologico, paletnologico, paleontologico e artistico, da chiunque e in qualunque modo ritrovate nel sottosuolo, i beni costituenti la dotazione della Presidenza della Repubblica, le caserme, gli armamenti, gli aeromobili militari e le navi da guerra.

Fanno parte del patrimonio indisponibile dello Stato o, rispettivamente, delle province e dei comuni, secondo la loro appartenenza, gli edifici destinati a sede di uffici pubblici, con i loro arredi, e gli altri beni destinati a un pubblico servizio.

Qualche riflessione in punta di penna sul patrimonio in generale, beni indisponibili e disponibili

Col l’articolo il codice si occupa della disciplina dei beni patrimoniali dello Stato, delle province e dei comuni, ossia dei beni che a tali enti appartengono a titolo di proprietà privata.

L’articolo contiene l’elencazione tassativa dei beni demaniali, mentre i beni patrimoniali vengono indicati genericamente come tutti gli altri che non sono della specie di quelli costituenti il pubblico demanio, in tal modo l’articolo in esame 826 finisce per riprodurre sostanzialmente l’articolo 428 del vecchio codice.

Il legislatore ha voluto, però, adottare per il patrimonio la distinzione già contenuta nel regolamento 23 maggio 1924, n. 827, fra patrimonio indisponibile e patrimonio disponibile.

Com’ è noto, la diversa posizione giuridica delle due categorie è conseguenza della diversa funzione economica dei beni che ne fanno parte: beni indisponibili sono quelli destinati direttamente a un fine pubblico, pertanto, sotto questo aspetto, si trovano in una condizione analoga a quella dei beni demaniali, pur non ricorrendo per essi le ragioni politiche e di altro genere che determinano l’assoggettamento al regime della proprietà pubblica. I beni disponibili hanno, invece, un’utilità strumentale, poiché servono alla produzione di altri beni, ossia di entrate patrimoniali per gli enti cui appartengono: essi sono, di conseguenza, soggetti in modo quasi completo alle regole del diritto privato comune.

L’adozione di questa distinzione ha reso necessaria una indicazione tassativa dei beni disponibili, a questa enumerazione sono dedicati il secondo e terzo comma dell’articolo.

In modo simmetrico a quanto ha fatto l’articolo 822 del codice civile per i beni demaniali, l’articolo elenca prima una serie di beni indisponibili che non possono appartenere se non allo Stato, quindi un altro gruppo, molto più generico, di beni indisponibili che possono appartenere così allo Stato come alle provincie e ai comuni e, come vedremo, anche ad altri enti.

I beni indisponibili di esclusiva proprietà dello Stato: foreste, miniere, cave e torbiere, cose d’interesse storico rinvenute nel sottosuolo, armamenti

L’elencazione dei beni indisponibili dello Stato comprende le seguenti categorie:

a)Le foreste, che a norma delle leggi in materia costituiscono il demanio forestale di Stato. Con ciò la Legge conferma che, nei riguardi delle foreste, l’espressione «demanio» è usata dalle leggi speciali in senso del tutto improprio. Quali foreste costituiscano il demanio forestale risulta dagli art. 106-116 del Regio Decreto 30 dicembre 1923, n. 3267: la proprietà di questi boschi da parte dello Stato non ha scopo soltanto finanziario, ma anche e soprattutto idrogeologico ed igienico, infatti tali scopi attengono a quelle ragioni di conservazione e d’incremento del patrimonio boschivo nazionale che giustificano le stesse limitazioni alla proprietà privata dei boschi.

Le foreste demaniali sono amministrate da un’apposita Azienda autonoma, che ha personalità giuridica ed organi propri, sebbene sia alle immediate dipendenze del Ministero dell’agricoltura e foreste (art. 108 e seguenti del decreto citato e leggi 13 dicembre 1928, n. 3141; 5 gennaio 1933, n. 30).

  1. b) Le miniere. La legislazione mineraria italiana ha raggiunto la sua unificazione soltanto col decreto legislativo 29 luglio 1927, n.1443, il quale sostituì le leggi degli antichi Stati ancora vigenti nelle varie province del Regno. Com’è noto, queste leggi avevano seguito vari sistemi, fra i quali i principali erano quello detto fondiario, vigente in Toscana e in Sicilia, e quello detto demaniale, proprio dell’antico Regno Sardo, del ducato di Parma e di quello di Lucca. Il sistema fondiario, basato sul principio romano, per cui la proprietà del suolo si estenderebbe anche al sottosuolo senza alcuna limitazione, riconosceva la piena proprietà delle miniere ai proprietari dei fondi soprastanti. Il sistema demaniale, derivava dall’ antico sistema regalistico, che riservava la proprietà del sottosuolo al sovrano, il quale ne faceva oggetto di concessioni perpetue e onerose al principale scopo di procurare un’entrata all’erario. Il sistema demaniale riserva la proprietà delle miniere allo Stato, che ne con­cede ai privati la coltivazione a scopo di generale utilità. A quest’ultimo si avvicina il sistema accolto dal decreto di unificazione: data l’importanza che la coltivazione delle miniere presenta per l’economia generale, il legislatore ha voluto evitare che esse restino in dominio dei proprietari del suolo, che possono non avere interesse o capacità per la loro coltivazione. Il decreto ha riservato, perciò, esclusivamente allo Stato la proprietà del sottosuolo, condizionando la coltivazione delle miniere ad apposita concessione amministrativa, che può essere rilasciata solo a chi presenta sufficienti garanzie tecniche e finanziarie ed è soggetta a decadenza in caso di cattivo use e di inosservanza degli obblighi imposti. Il decreto legislativo citato non contiene una definizione del sistema adottato; la relazione che lo accompagna, pure affermando essersi ii nuovo sistema informato al principio della demanialità, dichiara che il legislatore ha, tuttavia, evitata qualunque definizione, per non pregiudicare l’opera della futura codificazione. Il Codice non poteva perciò astenersi dal risolvere la questione della condizione giuridica delle miniere. La soluzione doveva evidentemente essere in armonia col sistema della legge speciale: rispetto a questa, varie erano state le interpretazioni della dottrina. A parte alcuni autori che negavano che lo Stato abbia un diritto di proprietà sul sottosuolo, fra coloro che hanno riconosciuto un tale diritto solo una minoranza qualificava questo come una proprietà. demaniale; la maggior parte escludeva che la legge offrisse elementi per una tale soluzione. In realtà la legge non contiene nessuna disposizione che ponga le miniere sotto il regime giuridico della demanialità: essa non attribuisce allo Stato altra funzione che quella di regolare il godimento e la coltivazione delle miniere; e, anche ove si voglia tener conto di altre leggi speciali, quali quelle dedicate alla polizia delle miniere, in esse non si trova alcuna norma che abbia per oggetto la tutela pubblicistica di tali beni, ma solo regole intese a garantire la sicurezza delle persone addette ai lavori. Si aggiunga che tali beni sono per loro natura redditizi e, quel che sembra ancor più decisivo, sono destinati ad esaurirsi col fatto stesso dell’uso e del godimento. Per tutto questo sembra esatta la soluzione accolta dal codice, collocando le miniere fra i beni patrimoniali, e precisamente fra quelli destinati a un determinato fine pubblico che nella specie fa parte di quello dell’incremento economico nazionale. Nessun contrasto presenta tale soluzione col richiamo al sistema demaniale, contenuto nella relazione citata: «sistema demaniale», non è espressione usata, nelle stesse classificazioni dei sistemi storici, nel senso tecnico di «sistema del demanio pubblico», ma essa serve soltanto per designare l’appartenenza delle miniere allo Stato. Inoltre, il rinvio al nuovo codice per la più precisa determinazione della natura di quest’appartenenza esclude qualunque pregiudizio della questione da parte del decreto legislativo.
  2. c) Le cave e torbiere. A differenza delle miniere queste non sono per natura in proprietà dello Stato, ma appartengono come regola ai proprietari dei fondi in cui si trovano. Solo quando il proprietario non intraprenda la coltivazione o non dia ad essa sufficiente sviluppo, il ministro per le corporazioni, previo il procedimento indicato nell’art. 45 del citato Regio Decreto 29 luglio 1927, può disporre della cava o della torbiera mediante concessione. In questo caso la condizione della cava è quella stessa stabilita per le miniere.
  3. d) Le cose d’interesse storico ed artistico ritrovate nel sottosuolo. La maggiore specificazione di tali cose, contenuta nel presente articolo, riproduce quella fatta dall’art. i) della legge su questa materia del 10 giugno 1939, n. 1089. Dalla stessa legge risulta come le cose della specie di cui si tratta, ritrovate nel sottosuolo, non possono appartenere che allo Stato: siano esse ricercate dallo Stato stesso per mezzo dei suoi organi, oppure da altri soggetti pe c concessione dello Stato, o dagli stessi proprietari nei propri fondi con particolare autorizzazione dello Stato stesso, o infine siano rinvenute fortuitamente in qualunque fondo, le cose ritrovate appartengono in tutti i casi allo Stato (legge cit. art. 43-50). Qualora le cose di cui in parola siano accolte in un museo o in una altra collezione di quelle indicate nel capoverso dell’articolo in esame, esse contribuiscono alla formazione di un bene demaniale: per se stesse, tuttavia, conservano comunque il carattere di beni patrimoniali indisponibili.
  4. e) Le caserme, gli armamenti, gli aeroplani e le navi da guerra. Tutti i beni destinati alla difesa militare appartengono esclusivamente allo Stato; i più importanti fanno parte del demanio pubblico, gli altri del patrimonio indisponibile.

Beni indisponibili comuni allo Stato e agli enti pubblici minori

I beni indisponibili che possono appartenere, oltre che allo Stato, alle province e ai comuni, sono costituiti dagli edifici destinati a sede di uffici pubblici, quali i palazzi dei ministeri, delle corti e dei tribunali, i palazzi del governo nelle province, le case in cui sono collocati gli uffici delle province e dei comuni. Accanto a questi immobili, l’articolo ricorda espressamente i mobili che servono ad essi di arredamento, i quali comprendono oltre al mobilio in senso stretto, gli strumenti tecnici, gli schedari, i registri, le carte e gli oggetti di cancelleria. Sono ugualmente indisponibili tutti i beni adibiti ai pubblici servizi, come gli edifici scolastici coi relativi arredamenti, quelli per lo svolgimento dei servizi postali, telegrafici e telefonici, gli impianti per la produzione e distribuzione dell’energia elettrica che sia usata come mezzo di pubblici servizi, ecc. Per tutti questi beni, la speciale condizione giuridica deriva da un atto di volontà della pubblica amministrazione, col quale la cosa è destinata al conseguimento di un determinato fine pubblico.

Le conseguenze del documento dell’Istituto per la Finanza e l’Economia locale

Dopo il documento IFEL del 14 aprile i Comuni non possono che essere disorientati: da una parte, l’IFEL pubblica e fa corsi di formazione promuovendo uno schema di regolamento, aggiornato il 25 febbraio e sempre reperibile sul sito dell’Istituto, che all’articolo 33, comma secondo, correttamente dà atto che “Nelle aree comunali si comprendono anche i tratti di strade statali o provinciali situati all’interno di centri abitati con popolazione superiore a diecimila abitanti”, dall’altra, lo stesso IFEL il 14 aprile giunge ad una conclusione diversa e, come si è visto, del tutto infondata.

Se i Comuni dovessero seguire le ultime indicazioni IFEL sarebbero inevitabili i contenziosi con gli Enti proprietari delle strade.

Bisognerebbe quindi che IFEL rimediasse dando atto che, in materia di centri abitati, la versione corretta è quella dell’articolo 33, comma secondo, dello schema di regolamento che lo stesso IFEL ha proposto ed aggiornato il 25 febbraio.