Proteggiamo chi ci protegge: il BURNOUT nelle forze dell’ordine – di Gerardo Puopolo

Proteggiamo chi ci protegge: il BURNOUT nelle forze dell’ordine – di Gerardo Puopolo

Con il termine anglosassone “Burn out” (letteralmente significa “bruciato”, “esaurito” o “scoppiato”) si intende una sindrome derivante da stress cronico, associato al contesto lavorativo, che non si riesce a gestire adeguatamente.

Essa è caratterizzata da una serie di fenomeni di affaticamento, delusione e logoramento psico-fisico che sfociano in prostrazione quotidiana e disinteresse per la propria attività professionale.

Le categorie più a rischio sono le professioni considerate “Help profession”, cioè le professioni preposte alla sicurezza pubblica, alla gestione delle emergenze, all’aiuto, alla cura ed assistenza dei cittadini, quali infermieri, medici, insegnanti, vigili del fuoco, forze dell’ordine, etc., dove il contatto quotidiano con le sofferenze fisiche ed emotive delle persone mette a dura prova la serenità dell’operatore.

Nelle professioni di aiuto, infatti, oltre alle competenze tecniche, è richiesto un rapporto emotivo con le persone, fattore che risulta fondamentale nello svolgimento dell’attività lavorativa. In queste professioni la pressione emozionale derivante dallo stretto contatto con la gente è una componente costante dell’attività lavorativa quotidiana.

Il personale delle forze dell’ordine, seppur con diverse fisionomie, è fortemente interessato a questo fenomeno.

Le riflessioni personali che mi appresto ad esporre, lungi dall’avere una pretesa scientifica, essendo io privo di qualsiasi titolo in merito, vogliono essere, invece, con il taglio dell’esperienza vissuta, un contributo per far giungere agli Organismi Istituzionali preposti, il “grido di dolore” che da troppo tempo si leva inascoltato da parte di uomini e donne che hanno scelto di dedicare la propria vita alla protezione dei cittadini e che, proprio per questo, meritano di essere altrettanto protetti dalle Istituzioni.

Negli ultimi decenni sono stati realizzati numerosi studi sul burnout in diversi gruppi lavorativi quali insegnanti, infermieri, medici, operatori sociali, etc.; gli studi relativi alle Forze dell’Ordine italiane, invece, anche a causa del continuo ridimensionamento delle risorse destinate al comparto sicurezza, purtroppo, sono scarsi e condotti su un numero alquanto limitato di operatori.

Eppure il servizio delle FF OO non può essere classificato solo come helping profession: se gli operatori sociali e sanitari hanno al centro della loro attività l’essere umano nelle varie sfaccettature dei suoi bisogni psico-fisici, il lavoro degli uomini in divisa è una professione che coinvolge aspetti emotivi più variegati e profondi, perchè non è basato esclusivamente sul rispetto delle leggi, sul contenimento dell’ordine pubblico e sull’aspetto sanzonatorio. Non dimentichiamo quanti Poliziotti e Carabinieri, agenti della Polizia Locale, sono quotidianamente chiamati a svolgere compiti dal forte impatto emozionale: conflitti a fuoco – omicidi – suicidi – incidenti stradali – risse ed episodi in cui restano coinvolti i propri colleghi in azioni nelle quali il prezzo da pagare è spesso anche la propria vita. Tutto ciò rende la sua identità personale e sociale più complessa e articolata rispetto alle altre categorie citate.

Alcuni studi hanno indagato gli aspetti positivi e negativi del lavoro del Comparto Sicurezza nella percezione dei stessi operatori. Tra gli aspetti positivi più citati risultano il contatto con i cittadini e il fatto di lavorare fra le persone, la percezione essere di aiuto e utili per la società, la cooperazione con i colleghi, la libertà/responsabilità, la sicurezza del posto di lavoro.

Tra gli aspetti negativi vengono citati l’orario di lavoro inadeguato, lo stipendio insoddisfacente, spesso rapporti difficili con colleghi e superiori, a volte con i magistrati, o gli avvocati. Le trasformazioni intervenute, inoltre, ben lungi dal portare maggiore gratificazione, hanno visto sempre più ridimensionare il ruolo sociale: si pensi all’attuale codice di procedura penale che di fatto ha spogliato le forze dell’ordine di quella che era la vocazione principale, cioè l’investigazione.

Va anche detto che dalle ricerche si evince un quadro ancora più complesso: le stesse caratteristiche possono essere percepite come soddisfacenti o insoddisfacenti a seconda dei casi e anche gli eventi drammatici tipici del lavoro del tutore dell’ordine, quando accadono, possono essere esperiti anche come effetti positivi da quegli agenti che amano l’eccitamento connesso al loro lavoro.

Gli studiosi del settore ci dicono che lo stress è la risposta fisiologica ed emotiva agli eventi che ci coinvolgono nell’attività lavorativa, essa può essere positiva o negativa a seconda del tipo di evento, delle conseguenze che innesca e delle risposte reattive che impone per essere affrontata e superata.

Si parla di Eustress (stress positivo) quando la condizione che ci mette sotto pressione, si rivela utile per rafforzare la nostra volontà, per motivarci, per spronarci a fare qualcosa o fare di meglio rispetto al nostro solito, essa ci permette maggiore concentrazione per massimizzare il risultato; il Distress (stress negativo), invece interviene quando tale condizione ci crea difficoltà, ritardi e complicazioni, le nostre risposte perdono di efficacia, di concentrazione, di efficienza, nascono nervosismo, ansia e disagio che se non risolti possono anche innescare una condizione depressiva.

La reazione agli eventi, quindi, non è sempre uguale per ogni individuo, ma varia a seconda del carattere della persona, delle condizioni fisiche, del contesto ambientale in cui tutto avviene, dalle capacità del soggetto di resistere alle tensioni e frustrazioni.

Gli agenti delle forze di polizia sarebbero, quindi, una categoria a forte rischio di stress lavorativo, le cui conseguenze possono essere spesso riscontrabili in fattori come: alto tasso di divorzi – alcolismo – depressione – problemi di salute cronica ed in casi estremi il suicidio.

Altri fattori stressanti e destabilizzanti che possono avere ripercussioni sulla qualità del lavoro svolto e sull’approccio che l’operatore ha nei riguardi del lavoro, sono: i turni di lavoro, l’alternanza fra turni diurni e notturni che provocano disturbi del sonno, unito a fatica cronica, disturbi psicosomatici e spesso disturbi coronarici.

C’è una questione drammatica di cui si parla pochissimo ma che riguarda da vicino la collettività e i cittadini perché ha a che fare con la più generale “percezione della sicurezza”, una delle basi della convivenza sociale: l’Italia ha un triste record fra i pesi occidentali, quello dei suicidi tra le Forze dell’Ordine.

Il tasso di incidenza dei casi di suicidio tra le forze dell’ordine negli ultimi dieci anni è raddoppiato rispetto alla popolazione civile. Un dramma che fa dei suicidi la prima causa di morte fra gli agenti in servizio, più delle vittime dei conflitti a fuoco o degli infortuni sul lavoro.

Una mattanza silenziosa che viene sottaciuta per una serie di ragioni che non sta a me analizzare, ma su cui pare si stia alzando il velo di silenzio e omertà che negli anni hanno accompagnato il triste fenomeno. Ai poliziotti che si sono tolti la vita, vanno aggiunti quelli che sono stati uccisi in conflitti a fuoco con la criminalità, le vittime di infortuni sul lavoro, ad esempio rimasti investiti mentre si rilevava un incidente stradale, e le cosiddette vittime del dovere, ovvero quegli agenti e funzionari rimasti uccisi in interventi a rischio, come il folle che fa esplodere l’appartamento con il gas, o, come la cronaca più recente ci riporta, il sommozzatore che ha perso la vita nella ricerca del corpo di una donna vittima di omicidio.

Il suicidio è, quindi,  la principale causa di morte di agenti in servizio.

Così scriveva in una lettera al Capo della Polizia il segretario di un importante sindacato: “L’anno in corso ci vede primeggiare nell’unica classifica tra le Forze dell’Ordine in cui vorremmo arrivare ultimi: quella dei suicidi di poliziotti”.

Purtroppo, quando si parla di suicidi tra le Forze dell’ordine, si entra in un campo minato, nel quale molti sono gli ostacoli che vanno ad impedire una seria e proficua discussione in merito.

Alcuni di questi “ostacoli” sono stati analizzati in alcuni autorevoli studi.

I ricercatori hanno evidenziato come il nostro paese soffra purtroppo di un arretramento notevole sul tema del disagio psicologico fra gli agenti o i militari in genere, mentre in altri paesi avanzati si stanno sperimentando forme di assistenza come pool di psicologi che intervengono addirittura assieme ai poliziotti sulle scene degli episodi più cruenti.

Vi sarebbe, alla base di tale difficoltà, un rifiuto tradizionale e ancora generalizzato del supporto psicologico che, come detto, sarebbe visto dalla cultura “machista” dominante talvolta tra gli agenti, come un insopportabile punto di debolezza individuale da nascondere agli occhi dei colleghi e dei superiori. La paura di molti poliziotti, carabinieri, agenti è quella di di venire isolati, “marchiati”, una paura che li spinge al silenzio piuttosto che alla ricerca di un aiuto per la propria sofferenza psicofisica.

Il risultato, è che “se sto male me lo tengo dentro”.

Secondo gli esperti la questione per cominciare a risolvere questo dramma è quella di considerare le sofferenze degli agenti non come un problema individuale e per questo da ignorare ufficialmente, ma come una questione professionale a tutti gli effetti, del tutto inerente al tipo di lavoro e di mansioni svolte.

I dati sui decessi degli appartenerti alle forze dell’ordine sono inquietanti: se la media di suicidi per la popolazione italiana è mediamente di 5 per centomila abitanti, per i tutori dell’ordine quasi raddoppia, arrivando al 9,8.

La maggior parte dei suicidi di poliziotti o appartenenti alle forze armate avviene con l’arma di servizio. Ma un’arma nelle mani di una persona che soffre psichicamente può trasformarsi in un pericolo mortale non solo per lui. Un agente che è vittima di stress sul lavoro non è un agente che può garantire la massima efficienza, e ciò può riverberarsi anche sul suo lavoro a contatto con i cittadini.

Da uno studio abbastanza recente emerge, inoltre, che «fra le forze di polizia l’incidenza dei suicidi con armi di ordinanza è superiore alla media della popolazione nazionale anche nel confronto con le altre categorie di addetti a servizi armati, sia nazionali che esteri». Per i casi accertati la spiegazione del gesto è per il 43% “ignota”, mentre nel 17% risulta legata a questioni sentimentali, e poi via via a forme di depressione, malattie di congiunti, separazioni, etc.

è di pochi mesi fa la lettera di dimissioni di un agente di Polizia, umiliato dal fatto che tutti gli sforzi fatti per compiere il bene della collettività vengano sempre disillusi dalla magistratura e dal governo che non riesce a dimostrare fattivamente la grande importanza che hanno le FF.OO. nel nostro Paese.

Un esempio sconvolgente di quanto si sta esponendo è il fatto verificatosi all’indomani della strage causata dall’attentato ferroviario del 23/12/1984 al treno rapido 104 Napoli-Milano, avvenuto nella galleria S. Benedetto Val di Sambro-Vernio del tratto Firenze-Bologna; un giovane Ispettore della Polizia di Stato in servizio presso la Scuola Polfer di Bologna, dopo aver prestato attività di soccorso per lunghe ore in quello scenario a dir poco sconvolgente, rientrato in caserma si tolse la vita con un colpo di pistola lasciando questo biglietto: “Non riesco più a concepire di vivere in un mondo assurdo. Questa è una società maledetta. Vi chiedo scusa. So benissimo che il dolore che vi do è molto grande, ma mi mancano le forze per continuare a vivere. Però voglio che voi tutti continuiate a vivere la vita, che in fondo è molto bella”.

L’operatore della Polizia di Stato, Arma dei Carabinieri, Guardia di Finanza, Polizia Penitenziaria, Polizia Locale, etc, ha un ruolo attivo nella società, è visto come persona integra ed imperturbabile capace di sostenere sulle proprie spalle la maggior parte delle problematiche della popolazione.

Un poliziotto della Stradale, ed esempio, quando interviene per gestire un incidente sa già in cuor suo cosa lo attende, se il sinistro è con esito mortale ha dovuto “rimuovere il cuore ed attaccare il robot”.

Non è questione di cinismo ma di sopravvivenza, è la barriera contro il dolore. Arrivare a casa a notte fonda e vedere i figli dormire tranquilli, dopo magari aver visto bambini della stessa età riversi su strada privi di vita o con attaccati diversi tubi, rinforza la protezione. E se non ci fosse una famiglia a sostegno del dolore?  Lo stesso capita dopo un intervento su una rapina o un omicidio. Sebbene solitamente l’operatore in emergenza sviluppi una soglia di tolleranza elevata nei confronti di situazioni che, occasionalmente o cronicamente, possono mettere a repentaglio il suo equilibrio psicologico, il rischio di essere seriamente coinvolto nelle esperienze traumatiche delle persone che soccorre deve essere tenuto sempre in seria considerazione.

L’angoscia che si prova in queste situazioni è molto forte e si accumula: come detto è raro che l’operatore delle FF.OO. si sfoghi con mogli o mariti, per non coinvolgere i propri affetti nel tragico quotidiano che gli tocca vedere.

La sua forza. però, può anche vacillare se non trova una valvola di sfogo.

Sempre per rimanere nello specifico ambito, ad un agente della Polizia Locale, ad esempio, tocca sempre più spesso “litigare” con gli utenti stressati dalla fretta e dalla morsa economica e questo fa si che la gente veda nell’operatore un aguzzino che gli tocca il portafogli, piuttosto che un operatore che garantisce l’ordine e la sicurezza pubblica anche elevando contravvenzioni. Gli insulti che vengono rivolti, per strada o allo stadio e nelle piazze feriscono e si accumulano.

Anche gli operatori della sicurezza, tra l’altro, sono colpiti dalla crisi economica, con l’aggravante di fare un lavoro che necessita dell’unicità e dell’abnegazione: si fanno straordinari sapendo che spesso non verranno pagati, si mettono propri soldi togliendoli alla famiglia per anticipare spese di trasferte ed altro.

Tra colleghi è molto difficile riuscire a sfogarsi, perché non si vuole ascoltare il disagio altrui che potrebbe farci pensare al proprio, e nelle amministrazioni non ci sono delle strutture adeguate che permettono una semplice “chiacchierata” senza rischiare di perdere “pistola e tesserino” e con essi lo stipendio o parte di esso.

Come dicevo all’inizio, le mie considerazioni si basano soprattutto sulla mia esperienza professionale vissuta quale funzionario della Polizia di Stato: la mia vita professionale si è dispiegata in maniera alquanto marcata lungo la direttrice del binomio distress/eustress

Nel 1975, quale vincitore di concorso per l’accesso all’Accademia del Corpo delle Guardie di Pubblica Sicurezza (poi divenuta Polizia di Stato) mi trovai subito proiettato in un mondo che non ammetteva “i deboli”.

La Polizia allora era un corpo militare (solo nel 1981, con la riforma assumerà una veste “civile”) e l’Accademia era caratterizzata da un militarismo inutilmente asfissiante (ci veniva detto che questo serviva a renderci più forti nel sopportare il peso del servizio che ci apprestavamo ad intraprendere).

Tuttavia, a fronte di studi intensivi a carattere universitari imperavano una gerarchia fredda e rigida, carichi di lavori addestrativi esasperanti ed un “nonnismo” (si chiamava cappellonaggio) rude, offensivo, gratuito e senza regole.

Diversi colleghi abbandonarono il corso perchè incapaci di resistere a tanto inutile stress; un collega, in permesso settimanale, si suicidò presso la sua abitazione. Si vociferò già allora che problemi personali erano stati acuiti dal forte stress che si subiva durante il corso in Accademia.

Anche io arrivai molto vicino alla decisione di lasciare: fu il forte senso della sfida con me stesso ed il fatto che stavo intraprendendo esattamente la professione che fin da piccolo avevo sempre sognato: fu l’idea forte di essere di aiuto della società e dei più deboli, combattere le ingiustizie e l’illegalità, a farmi continuare.

Nel 1979, al termine del corso quadriennale dell’Accademia, su mia scelta (in parte condizionata), fui assegnato alla Questura di Palermo, dove giunsi a pochi giorni dalla uccisione del Dirigente della Squadra Mobile Dr. Boris Giuliano. In quel periodo aleggiava un profondo senso di impotenza e smarrimento.

L’esperienza palermitana mi ha segnato fortemente dal punto di vista umano e professionale. La solitudine nella quale si trovavano ad agire gli uomini delle istituzioni che combattevano la mafia (magistrati, forze dell’ordine, etc) è stata lo sfondo sul quale si è diramata la mia attività di poliziotto.

Solitudine rispetto alle istituzioni, solitudine rispetto alla c.d. “società civile” (non fecero molto scalpore nella società civile i ripetuti riferimenti alla mafia che “dava lavoro”).

A fronte di importanti successi nella lotta alla mafia, le morti drammatiche di magistrati, colleghi, con i quali avevi magari cenato il giorno prima, comportavano un profondo senso di malessere che si riverberava non solo sulla vita professionale ma anche in quella privata, nel tempo già ristretto che si dedicava agli affetti familiari.

Ancora più drammatica era la constatazione che le persone trucidate dalla mafia erano morte invano e dimenticate presto.

Che fare allora?

Certo, la soluzione non è delle più semplici.

Per quanto attiene le iniziative messe in atto per il perseguimento di un certo benessere psicologico e fisico degli operatori, va detto che è stata proposta da più parti la realizzazione di alcuni progetti formativi sulla salute mentale del personale e la formazione del personale sanitario in materia di gestione delle problematiche psichiche e ancora la formazione  del personale in materia di gestione dello stress, l’istituzione di una rete di personale sanitario particolarmente qualificato in materia di salute mentale che sia di riferimento per gli operatori sul territorio, l’attivazione, mediante apposite convenzioni con i vari ordini regionali degli psicologi, di una capillare rete di assistenza attraverso la quale i dipendenti possano ricevere l’eventuale necessario supporto.

Provvedimenti certamente utili, ma che in larga parte sono rimasti inattuati fino ad oggi.

Questo perchè nel nostro paese, purtroppo, manca completamente la cultura del benessere mentale e vacilla addirittura anche la fiducia nei medici. Il sentimento comune è che lo psicologo sia per i “pazzi”.  In questo modo, la visita psicologica viene vista come lo strumento per fermare “gli scoppiati” prima che colpiscano.

A mio modesto avviso, invece, è necessario una decisa svolta culturale ed organizzativa, partendo dal D.Lgs. 81/08 (anche detto “Testo Unico” di salute e sicurezza sul lavoro).

Questa norma introduce alcuni obblighi da parte del Datore di Lavoro come l’attivazione della Sorveglianza Sanitaria con l’obiettivo di valutare le condizioni psicofisiche del singolo lavoratore e di monitorarne l’andamento nel tempo per determinare l’impatto di eventuali rischi presenti sul lavoro, onde avere un quadro costante dell’idoneità psicofisica di ciascun lavoratore, in relazione ai fattori di rischio professionali e alle modalità di svolgimento dell’attività lavorativa.

Bisognerebbe, quindi, prevedere, per tutti i tutori dell’ordine, visite obbligatorie periodiche fisiche e psichiche facendo così maturare tra gli operatori la consapevolezza che la visita psicologica serve ad assicurare le condizioni di benessere fisico e psichico, ad aiutare l’equilibrio mentale necessario a tutti, imparando a conquistare la libertà di parlare apertamente dei problemi.

Il rapporto con il medico e, quindi, con lo psicologo, deve diventare una “consuetudine”, una chiacchierata con “l’amico di cui ti fidi”  e del quale senti di essere “ascoltato e capito” e non un incontro da cui fuggire a tutti i costi per non essere negativamente etichettato e danneggiato.