L’adempimento di un dovere e l’ordine della pubblica autorità

L’adempimento di un dovere e l’ordine della pubblica autorità

Le cause di giustificazione del fatto sono situazioni in presenza delle quali un’azione che, altrimenti dovrebbe essere considerata illecita, diviene lecita proprio in quanto una norma giuridica, situata in qualche luogo dell’ordinamento, la facoltizza o, addirittura, la impone. Esse non eliminano soltanto un elemento del reato, come la forza maggiore (che esclude la condotta) od il caso fortuito (che esclude la colpa), ma rendono il fatto lecito sin dall’origine, nel senso che il fatto, sebbene conforme al tipo descrittivo, nasce ab initio come lecito.

Tra le varie cause oggettive di esclusione del reato, l’art. 51 c.p. contempla, oltre alla scriminante dell’esercizio del diritto, la causa di giustificazione dell’adempimento del dovere. Esso prevede che: “l’adempimento di un dovere imposto da una norma giuridica o da un ordine legittimo della pubblica autorità, esclude la punibilità. Se un fatto costituente reato è commesso per ordine dell’Autorità, del reato risponde sempre il pubblico ufficiale che ha dato l’ordine. Risponde del reato, altresì, chi ha eseguito l’ordine, salvo che, per errore di fatto, abbia ritenuto di obbedire ad un ordine legittimo. Non è punibile chi esegue l’ordine illegittimo, quando la legge non gli consente alcun sindacato sulla legittimità dell’ordine“.

Come l’esercizio di un diritto, anche l’adempimento di un dovere trova il suo fondamento nel principio di non contraddizione. E’ inconcepibile, infatti, che in un medesimo ordinamento una condotta sia contemporaneamente doverosa e vietata. La norma in esame, con sentenza della Corte Costituzionale, 22.6.1972, n. 1213, è stata ritenuta compatibile con gli articoli 3 e 28 della Costituzione.

L’articolo 51 del c.p., prevede che l’adempimento di un dovere, per escludere la punibilità, debba essere imposto da una norma giuridica o da un ordine legittimo.

A nulla rileva, quindi un dovere imposto da una norma morale o di convenienza ovvero consuetudinaria. Sul rilievo che la legge penale italiana si applica anche per fatti commessi in territorio estero, anche da cittadini stranieri, si è autorevolmente sostenuto (Delitalia, G., Adempimento di un dovere, in Enc. Dir.  1, Milano, 1958, 568) che tra le fonti del dovere debbono annoverarsi anche le norme degli ordinamenti giuridici stranieri.

Se così non fosse, si è argomentato, chi esegue la pena capitale in territorio estero, sarebbe punibile se si trovasse in Italia ed il Ministro della Giustizia avanzasse la prescritta richiesta. L’articolo 51 del codice penale, non limita la scriminante alla sola legge italiana o agli ordini impartiti dal nostro Stato. Il problema – si è rilevato – si risolve alla stregua del riconoscimento della necessità della coesistenza fra ordinamenti giuridici diversi onde è inconcepibile che, riconosciuto u  ordinamento giuridico straniero, non si riconosca poi l’imperatività delle leggi da esso emanate e si pretenda di punire chi, avendone il dovere, a quelle leggi ha prestato obbedienza.

Secondo il Pagliaro (Principi di diritto penale, Milano, 1972, 416) la norma giuridica, fonte del dovere che scrimina, può derivare anche dalle leggi regionali e provinciali, dai Regolamenti dai Contratti collettivi di lavoro. L’opinione, tuttavia, non può essere condivisa. Anche per il dovere che scrimina sembra debba operare il principio di riserva di legge (articolo 25 della Costituzione). La riserva di legge, infatti  ha una funzione di garanzia e vuole assicurare che in materie particolarmente delicate, le decisioni vengano prese dall’organo più rappresentativo del potere sovrano cioè dal parlamento come previsto dall’articolo 70 della  Costituzione.

Resta da esprimere l’opinione secondo cui fonte del dovere che scrimina non possa essere la convenzione tra privati (così invece, SANTORO, A., Esercizio di un diritto, Adempimento di un dovere (Dir. Pen. Comune), in Niss. D. I., VI, Torino, 1960, 829). La ragione sembra risiedere nel fatto che, trattandosi di diritti disponibili, l’efficacia scriminante trova il suo fondamento nel consenso prestato dall’avente diritto.

4.1 L’ordine della pubblica autorità

Secondo un autorevole insegnamento ( DELITALIA, G., Adempimento di un dovere, in Enc., dir.,  Milano, 1958, 569) l’ordine è “ un comando, vale a dire una manifestazione di volontà, che ha per contenuto l’imposizione di una determinata condotta ( positiva od omissiva) in forza di una potestà che autorizza un soggetto a porre il comando ed obbliga un altro soggetto ad eseguirlo sotto minaccia di una sanzione”.

L’ordine presuppone un rapporto di soggezione particolare, ma non di gerarchia. Non si richiede, infatti, che esso rapporto abbia carattere permanente, in quanto anche i privati sono tenuti, in ipotesi particolari, ad eseguire ordini della Pubblica Autorità.

L’ordine deve essere impartito dalla Pubblica Autorità, il che significa che non hanno valore scriminante di comportamenti costituenti reato gli ordini impartiti da autorità private. Questi potranno anche essere fonte di obblighi giuridicamente rilevanti ( si pensi agli ordini impartiti dal titolare di un’azienda ad un dipendente) ma non potranno escludere la punibilità di colui che nella esecuzione di essi abbia commesso reato ( in giurisprudenza, nel senso appena prospettato:Cass. Pen., sez. VI, 22.10.1971, Alinnu, in Cass. Pen. Mass., 1972, 1567, m. 2245; Cass. Pen., sez. III, 21.1.1981, Giachino, ivi, 1982, 926, m. 829; Cass. Pen., sez. V, 28.5.1984, Pres. Zucconi, in Cass. Pen., 186, 48, n. 17; contra: Cass. Pen., sez. IV, 28.11.1975, Gatto, in Giust. Pen., 1977, II, 139 con nota di V. Miranda).

 L’ordine legittimo ed illegittimo

Recita l’articolo 51 c.p.,” …l’adempimento di un dovere imposto …, da un ordine legittimo della pubblica Autorità, esclude la punibilità”.

Se un fatto costituente reato è commesso per ordine della Autorità, del reato risponde sempre il pubblico ufficiale che ha dato l’ordine. Risponde del reato altresì chi ha eseguito l’ordine, salvo che, per errore di fatto, abbia ritenuto di obbedire ad un ordine legittimo.

Non è punibile chi esegue l’ordine illegittimo quando la legge non gli consente alcun sindacato sulla legittimità dell’ordine”.

La richiamata norma non è certo un esempio di semplicità di costruzione limitandosi a ribadire in forma involuta una verità assai semplice: non commette illecito chi realizza un fatto di reato in esecuzione di un ordine emanato dalla Pubblica Autorità il quale, benché legittimo, comporti a carico del destinatario il dovere di eseguirlo.

Occorre dunque stabilire quando l’ordine sia  legittimo e quando illegittimo.

Perché l’ordine sia legittimo – e quindi comporti l’obbligo per il soggetto tenuto di eseguirlo – occorre che sussistano requisiti di carattere formale e requisiti di carattere sostanziale.

Requisiti di ordine formale sono: la competenza del superiore ad emanare l’ordine; la competenza del soggetto tenuto ad eseguirlo; l’emanazione nelle forme prescritte dalla legge.

Requisiti di ordine sostanziale sono: l’insieme dei requisiti richiesti dalla legge per l’emanazione del tipo determinato di ordine.

Saranno pertanto, requisiti formali di un ordine di cattura l’emissione da parte del pubblico ministero: l’essere il provvedimento diretto ad un ufficiale od agente di polizia giudiziaria: la forma scritta.

Requisiti sostanziali: che sussistano sufficienti indizi di colpevolezza a carico di colui contro il quale il provvedimento viene emesso ( articolo 252 c.p.p.) e gli altri requisiti previsti dall’articolo 254 c.p.p. (modificato dall’art. 4 l. 12/08/1982), n. 532).

Nessun particolare problema sorge per quanto concerne l’esecuzione degli ordini legittimi; si tratta di ottemperare, sia pure in forma mediata, al comando di una norma di legge che appunto, è resa concreta dall’ordine.

Il concetto di ordine illegittimo si ricava con procedimento a contrario.

Si avrà, dunque, ordine illegittimo quando esso sia formalmente o sostanzialmente contrario alla legge nel senso sopra visto.

L’ordine vincolante

Si è detto che, in sostanza, l’articolo 51 del codice penale, ribadisce il concetto secondo cui non commette illecito chi realizzi un fatto di reato in esecuzione di un ordine emanato dalla Pubblica Autorità il quale, benché illegittimo, comporti a carico del destinatario il dovere di eseguirlo.

Il concetto di vincolatività dell’ordine non discende, dunque, dalla legittimità o meno dello stesso, nel senso che, mentre l’ordine legittimo è pacificamente vincolante, secondo la norma in esame anche l’ordine illegittimo può essere vincolante.

In conclusione, può dirsi che l’ordine è vincolante per il destinatario al quale la legge non consente potere di sindacato ogni qual volta, pur sostanzialmente illegittimo, non sia contrario alla legge penale e , per quel che concerne l’ordinamento militare, non sia manifestamente criminoso o manifestamente rivolto contro le istituzioni dello Stato.

L’errore sulla legittimità dell’ordine

L’articolo 51, 2° cpv, c.p., detta la regola secondo cui (in caso di commissione di un fatto reato per ordine dell’autorità) “risponde del reato altresì chi h eseguito l’ordine, salvo che, per errore di fatto, abbia ritenuto di obbedire ad un ordine legittimo”.

Al tema si accenna solitamente in dottrina, enunciando l’opinione secondo cui il capoverso in esame è un’applicazione del 2° capoverso dell’articolo 59 c.p.

La giurisprudenza continua a limitare, al contrario, l’efficacia dell’articolo 59, 2° cpv., c.p., all’errore concernente la situazione di fatto dalla quale il dovere può derivare con esclusione della rilevanza di qualsiasi altro tipo di errore in quanto traducendosi in errore sulla legge penale (Cass. Pen., sez. IV, 30/01/1963, Tamburini, in Cass. Pen. Mass., 1963, 493, m.824).

Errore sulla legittimità formale: l’erroneo convincimento potrà vertere sulla competenza di chi emette l’ordine, sulla competenza propria di chi deve eseguirlo, sulla sussistenza delle forme prescritte dalla legge per eseguire l’ordine (es. forma scritta).

L’errore potrà teoricamente essere di fatto o di diritto ma – per espressa indicazione normativa ( articolo 51, 3° co., c.p.) – rileverà solo l’errore di fatto.

Così andrà esente da responsabilità l’agente di polizia giudiziaria che materialmente scambiando un magistrato della giudicante con un magistrato del pubblico ministero, esegue l’ordine di carcerazione del primo illegittimamente emesso. Non così l’agente di P.G. nell’ipotesi in cui ritenendo, per errore di diritto, che ai fini dell’ordine di carcerazione basti un ordine dato oralmente, esegua tale ordine illegittimo.

Errore sulla legittimità sostanziale: sembra da escludersi una ipotesi di questo tipo in quanto ogni indagine in ordine al merito dell’atto che è alla base dell’ordine, spetta solo al magistrato.

Errore sul carattere vincolante dell’ordine: sembra configurare un’unica ipotesi: che l’errore verta circa la possibilità di sindacato sull’atto imposto.

Così l’impiegato civile dello Stato, il quale ritenendo, per errore,, insindacabile un atto imposto, che, al contrario, vietato dalla legge penale, sarebbe sindacabile, risponderà del reato posto in essere? Si tratta, dal punto di vista tecnico, di un’ipotesi di errore su di un elemento normativo di scriminante.

Anche qui l’errore potrà – teoricamente – essere di fatto o di diritto.

Sulla scia dell’insegnamento di autorevole dottrina (Gallo, M. Dolo (dir.Pen.) in Enc. Dir. XIII, Milano, 1964, 760 ss.) sembra possibile limitare l’operatività dell’errore a quello di fatto, funzionando l’articolo 51, 3° comma, del codice penale, come limite alla stessa possibilità di estensione analogica dell’articolo 7, 3° comma, codice penale.

L’ESERCIZIO DI UN DIRITTO

Oltre all’adempimento del dovere l’articolo 51 del codice penale disciplina l’esercizio di un diritto.

Comunemente ritenuta espressione del principio di non contraddizione, la scriminante dell’esercizio del diritto di cui all’art. 51 c.p. impedisce l’applicazione della sanzione penale in danno di chi abbia realizzato una condotta astrattamente sussumibile in una fattispecie di reato, esercitando tuttavia una facoltà riconosciutagli dall’ordinamento.

Un’azione non può essere contemporaneamente consentita e vietata dall’ordinamento.

Qui iure suo utitur naeminem laedit: la persona che nello sporgere querela riferisce dei fatti che offendono l’onore o il decoro del querelato, non risponde del reato di diffamazione (art. 595 c.p.), come non ne risponde l’avvocato che in scritti presentati all’autorità giudiziaria offende l’avversario del proprio cliente, se l’offesa concerne l’oggetto della controversia.Vista la natura di norma penale in bianco dell’art. 51 che rimanda alle disposizioni attributive di diritti o facoltà bisogna in ogni caso verificare che  la norma attributiva del diritto prevalga o soccomba nel confronto con la previsione incriminatrice.

Bisognerà sempre tenere conto del principio di bilanciamento di interessi.

Diritto scriminante

Quanto alla nozione di diritto scriminante, essa sembra comprendere insieme ai diritti soggettivi propriamente detti, le facoltà, le potestà, i diritti potestativi e comunque ogni attività giuridicamente autorizzata.

Quanto alle fonti esse sono comunemente identificate nella legge, anche extrapenale, nel regolamento, nella consuetudine, nonché in tutti gli atti pubblici o di autonomia privata ai quali la legge riconosce l’effetto di produrre situazioni giuridiche soggettive attive (provvedimenti giurisdizionali, atti amministrativi e contratti di diritto privato).

Discutendo dell’ampiezza del diritto scriminante è doveroso accennare al problema dei c.d. delitti culturalmente orientati.

Il problema è quello della punibilità di condotte che, tenute in Italia da soggetti appartenenti a culture diverse, perché di etnie diverse, integrano reato per il nostro ordinamento penale (ad es. maltrattamenti in famiglia), nonostante siano facoltizzate, imposte, approvate e condivise dalla cultura e dalle leggi di provenienza.

Sul punto i giudici italiani tendono ad escludere che il riconoscimento di un rilievo penale alla diversità culturale possa spingersi fino ad ammettere una sorta di esimente o scusante in presenza di condotte che, per quanto approvate dalla cultura di provenienza, sono lesive di beni fondamentali, dal nostro ordinamento sul piano costituzionale.

 I limiti all’esercizio di un diritto.

Il diritto è una situazione giuridica soggettiva che pone il titolare nelle condizioni di esercitare una serie di poteri, strumentali al soddisfacimento dell’interesse tutelato, con le modalità ed entro i confini delimitati, anche implicitamente, dalla legge che lo riconosce.

Chi travalica tali limiti interni abusa del diritto e pertanto non può beneficiare della scriminante di cui all’art. 51 c.p..

Un limite interno comune a tutti i diritti è quello desumibile dagli artt. 392 e 393 c.p. che puniscono chi vuol far valere le proprie, anche legittime, pretese con l’uso della violenza su cose o persone.

In secondo luogo bisogna valutare la presenza di limiti esterni, derivanti cioè dalle altre norme di pari dignità che riconoscono alteri interessi rispetto ai quali va dunque valutata la prevalenza o meno del diritto esercitato.

La questione è particolarmente complessa laddove si ha a che fare con diritti di livello costituzionale.

L’individuazione della linea di demarcazione fra le aree di operatività proprie delle norme in apparente conflitto e, così, degli indici da utilizzarsi a tale scopo merita una preliminare precisazione di metodo. Partendo dal presupposto per cui le norme prese in considerazione si presentano nel loro aspetto statico ed astratto – così da essere estranee ad eventuali giudizi di conformità del fatto concreto al tipo legale – non pare corretto parlare di scriminante dell’ “esercizio del diritto”, quanto, piuttosto, di scriminante del “diritto”.

Come evidenziato in termini di lucida chiarezza, il diritto scrimina entr i limiti in cui è concesso; il fatto concreto resta scriminato in quanto posto in essere entro i limiti del diritto.

Non vi è, allora, spazio per una distinzione tra diritto e suo esercizio, in rapporto alla loro portata, né per la conseguente possibilità di un esercizio illegittimo di un diritto, costituendo l’esercizio nient’altro che l’attuazione del contenuto del diritto, il comportamento umano a tale contenuto corrispondente.

Come insegnato da autorevole dottrina  invero, quando si afferma che non basta la sussistenza del diritto per scriminare l’azione che lo attua, se non sia prevista, anche implicitamente, proprio quella condotta che di norma costituisce reato, non si considera che non esistono diritti esercitabili in un modo e in un altro no, e che perciò, se un determinato comportamento non può essere tenuto, vuol dire soltanto che non c’è nemmeno diritto di tenerlo.

Tali osservazioni, per quanto possano apparire ovvie e scontate, risultano, in ogni caso, decisive nel precludere prospettazioni errate, volte a configurare la possibilità di un esercizio illegittimo del diritto e a subordinare l’applicabilità della scriminante nel rispetto di limiti esterni, in realtà inesistenti sotto un profilo di stretto rigore giuridico.

Non pare, infatti, opportuno operare, in tal senso, distinzioni logiche fra limiti interni e limiti esterni del diritto, definendo i primi come i limiti del diritto scriminante promananti dalla stessa norma che lo configura ed i secondi quali limiti promananti da norme diverse e poste a tutela di interessi differenti.

L’effettiva sussistenza dell’ipotesi scriminata deve derivare da una contestuale valutazione di tutti gli elementi normativi utili, tanto di quelli contenuti nella disposizione attributrice del diritto, quanto di quelli offerti da altre disposizioni (di divieto o autorizzatici) incidenti nella stessa materia, ovvero in ambiti limitrofi.

Sia i limiti interni che quelli esterni valgono, pertanto, a qualificare congiuntamente l’ambito del lecito, tanto da non residuare spazi, come anticipato, per ipotetiche fattispecie di “esercizio illegittimo del diritto”.

La tematica presenta un indubbio momento di aderenza con il concetto di“abuso del diritto”

Con tale espressione, cui è evidentemente sottesa una contraddizione in termini, si intende, infatti, mettere in rilievo, da un lato, che se vi è diritto non vi è abuso (e viceversa), nonché, dall’altro, che ogni ipotesi di diritto prevista ex lege contiene un suo limite interno, funzionale, insito nelle stesse facoltà consentite di volta in volta e strutturalmente corrispondente alle finalità in funzione delle quali il diritto viene riconosciuto

E quindi, se a un diritto è immanente un determinato scopo, esso è tale solo nell’ambito di tale scopo; ne consegue che non può considerarsi esercizio del diritto, per mancanza di conformità al tipo legale, il fatto che da tale scopo si discosti.

Proseguendo sullo stesso tema e senza obiettivi di completezza, pare, infine, potersi ritenere che una simile prospettiva sia configurabile con riguardo ad ogni fattispecie di diritto, tanto quelle in cui il limite teleologico sia espressamente previsto dalla legge, quanto quelle in cui il nesso funzionale e finalistico rimanga a livello implicito.