Il principio di legalità nel diritto amministrativo – di Giuseppe Montana

Il principio di legalità nel diritto amministrativo – di Giuseppe Montana

1. Breve premessa sui principi generali dell’azione amministrativa.
L’assioma fondante del nostro diritto amministrativo richiede che l’azione amministrativa, per essere legittima, deve essere conforme alla legge.
In questo caso, il termine legge viene inteso in senso lato, perché esso comprende non solo la norma attributiva di potere (cioè la specifica norma di legge o atto avente forza di legge), che consente alla P.A. di intervenire su una data materia, ma anche quel complesso di principi giuridici che guidano l’azione amministrativa e che trovano il loro fondamento nella costituzione, nella legge ordinaria, nel diritto comunitario e nella giurisprudenza, nazionale o comunitaria.
Si fa qui riferimento, per l’appunto, ai principi generali che disciplinano l’azione amministrativa, i quali si configurano come vere e proprie norme giuridiche di carattere precettivo sia nei confronti della P.A. procedente sia nei confronti dello stesso Giudice che deve sindacare l’ operato della pubblica Autorità.

Nel novero dei principi generali dell’azione amministrativa, il principio di legalità assume particolare importanza, perché costituisce il supporto legittimante dell’agere della P.A., quando questa agisce iure imperii.

2. Definizione del principio di legalità nel diritto amministrativo.
Il principio di legalità richiede che l’azione amministrativa deve essere esercitata nel rispetto della legge.
Questa definizione, dopo una lunga evoluzione storico-giuridica, oggi viene intesa nel senso che l’azione amministrativa, per essere legittima, deve trovare fondamento in una specifica norma di legge (la c.d. norma attributiva di potere).
Questa norma, inoltre, deve contenere statuizioni chiare, precise e definite, che devono attribuire all’Autorità amministrativa procedente lo specifico potere che le consenta di intervenire su una data materia, devono pure fissare la specifica finalità pubblica per cui può essere esercitato tale potere ed, infine, devono determinare, sia pure nelle linee generali, le modalità di esercizio del potere stesso, nonché i presupposti ed il contenuto dell’atto amministrativo, cioè dello strumento con cui si esercita il potere conferito.
Com’è evidente, l’attuale interpretazione del principio di legalità fonda la legittimità dell’azione amministrativa su una tripartizione di elementi strutturali:
o la ricorrenza di una norma attributiva di potere, in assenza della quale la P.A. non è legittimata ad agire iure imperii, ma potrà agire solo con i poteri propri del diritto comune e cioè come un privato cittadino;
o questa norma attributiva di potere deve contenere disposizioni chiare e precise, che devono lasciar comprendere, in anticipo e con certezza, quali saranno le conseguenze della loro applicazione da parte della P.A;
o infine, tale norma deve porre limiti ben precisi all’ agere della P.A., stabilendo le modalità di esercizio del suo potere amministrativo e prevedendo, sia pure nella sua essenzialità, lo schema astratto dell’atto amministrativo con cui si esercita tale potere.
Il principio di legalità, inteso nel senso appena detto, diventa una fonte di garanzia per la tutela delle posizioni giuridiche soggettive di coloro che vengono a contatto con la P.A. .

3. Evoluzione storico-giuridica del principio di legalità nel diritto amministrativo.
Come già detto sopra, la predetta opzione ermeneutica del principio di legalità è il risultato di un lungo travaglio giuridico, che sostanzialmente ha attraversato tre fasi.

3.1. Tutela debolissima del principio di legalità.
Ed invero, in un primo momento, si riteneva che l’applicazione del principio di legalità richiedesse, per garantire la legittimità dell’azione amministrativa, semplicemente che quest’ultima non risultasse in contrasto con una norma di legge. In pratica, si riteneva che l’azione della P.A. incontrasse solo dei limiti negativi, segnati, per l’appunto, dalla ricorrenza di espresse norme di legge che sancissero il divieto di agire per la stessa P.A.
La dottrina ha definito questa prima impostazione ermeneutica come “tutela debolissima” assicurata dal principio di legalità alla legittimità amministrativa.
Infatti, così inteso, il principio di legalità non può essere considerato fonte di garanzia per gli amministrati e ciò in considerazione dell’enorme spazio di discrezionalità che viene riconosciuto alla P.A. procedente.
Ed invero, il principio di legalità inteso in questo senso, evidentemente, si fonda sull’assioma per cui “tutto ciò che non è espressamente vietato è consentito”.
Ebbene, un tale assioma, se assume una valenza fortemente positiva nel campo del diritto penale (perchè, riferendosi all’attività posta in essere dai singoli, ne amplia le libertà individuali), viceversa, non altrettanto si può dire nell’ambito del diritto amministrativo.
Invero, in quest’ultimo caso, l’applicazione di un tale assioma non può che riferirsi all’attività della P.A. (e non a quella dei singoli), consentendole di svincolarla dalla ricorrenza di una specifica norma di legge abilitativa.
In tal modo, però, alla P.A. viene riconosciuta la possibilità di ampliare oltremisura il campo della sua operatività, con forte detrimento delle posizioni soggettive dei destinatari della sua azione.
Ciò, in quanto il riconoscimento della possibilità di intervento della P.A. in assenza di una norma di legge attributiva di potere comporta l’ampliamento della sua sfera di discrezionalità, con conseguente diminuzione dello spazio di riconoscimento delle libertà e dei diritti dei destinatari della sua azione.
In definitiva, si può dire che la c.d. “tutela debolissima” del principio di legalità è propria di quegli ordinamenti giuridici in cui si vuole riconoscere una P.A. forte, se non addirittura autoritaria, a discapito dei diritti e degli interessi dei suoi amministrati.

3.2.Principio di legalità inteso in senso formale.
In considerazione di tale ragione, la nozione del principio di legalità ha avuto una sua prima evoluzione, passando dalla predetta “tutela debolissima” ad una nuova accezione, definita dalla dottrina come “tutela debole o tutela formale”.
Secondo questo nuovo orientamento, il principio di legalità, inteso “in senso formale”, richiede che l’azione amministrativa deve trovare fondamento in una specifica norma di legge (c.d. norma attributiva di potere), che attribuisca alla P.A. il potere di intervento su una data materia e, nel contempo, fissi la finalità pubblica che l’Autorità amministrativa deve perseguire nell’esercizio di tale suo potere (causa del potere esercitato).
In altre parole, questa diversa nozione del principio di legalità riconosce che l’azione amministrativa risulta circoscritta non solo dai limiti negativi (cioè da norme che pongono divieti di agire), ma anche dai c.d. limiti positivi, costituiti dalla ricorrenza di specifiche norme di legge che abilitino la P.A. ad intervenire su un dato settore.
Certamente, questa nuova impostazione del principio di legalità risponde maggiormente alle esigenze di tutela delle posizioni dei singoli, perché si fonda sulla necessità di una norma di azione che legittimi l’agere amministrativo.
Però, anch’essa incontra un limite fondamentale, perchè, pur prevedendo la necessità della ricorrenza di una norma di legge come requisito fondante per la legittimità dell’azione amministrativa, tuttavia, non prevede che questa norma debba avere un contenuto minimo tale da imbrigliare e contenere l’azione amministrativa, in modo da circoscrivere quanto più possibile l’ambito della sua discrezionalità.
In pratica, il limite del principio di legalità inteso “in senso formale” si rinviene nel fatto che non preveda una norma attributiva di potere che, oltre ad essere fonte di attribuzione del potere stesso, deve anche essere determinativa delle modalità di esercizio del potere e del contenuto minimo dell’atto amministrativo.
In pratica, questa concezione formale del principio di legalità concepisce la norma attributiva di potere come monca nel suo aspetto sostanziale.
Concepita in tal modo, la norma abilitativa consente alla P.A. la possibilità di perseguire liberamente la causa del potere esercitato (cioè la finalità pubblica fissata dalla norma), cioè con le modalità che meglio riterrà opportune e ciò proprio perché non incontra il limite, legislativamente fissato, delle modalità di esercizio del potere e del contenuto minimo dell’atto.
Da tutto ciò ne consegue che anche la concezione formale del principio di legalità comporta un forte ampliamento del campo della discrezionalità amministrativa, che correlativamente determina il restringimento dello spazio di tutela della libertà e degli interessi degli amministrati.
In questo modo, formalmente l’azione amministrativa risulterà legittima, perché troverà fondamento in una norma abilitante e perché perseguirà la finalità pubblica fissata dalla legge.
Mentre, nella sostanza, la legittimità amministrativa risulterà fortemente vulnerata, atteso che, per raggiungere la causa del potere esercitato, alla P.A. sarà riconosciuto un margine di discrezionalità così ampio da poter facilmente trasbordare nella lesione delle posizioni soggettive di coloro con cui viene a contatto.
Proprio per questa ragione, si parla di “principio di legalità in senso formale”.

3.3. Principio di legalità inteso in senso sostanziale.
Tenuto conto di ciò, si è pervenuto ad una nuova nozione del principio di legalità, inteso “in senso sostanziale”.
Secondo questa nuova impostazione, non è sufficiente che la norma di legge fissi le due predette condizioni legittimanti dell’azione amministrativa (attribuzione di potere e finalità pubblica da perseguire), ma è anche necessario che stabilisca le modalità di esercizio del potere amministrativo, nonché i presupposti ed il contenuto dell’atto amministrativo, frutto dell’esercizio di detto potere.
Quest’ultima interpretazione è stata avallata dalla Corte costituzionale, che ha ripetutamente precisato come il principio di legalità debba essere inteso in senso sostanziale (cfr. ex plurimis sentenze 307/2003, 32/2009, 115/2011).
Infatti, secondo l’insegnamento della Corte Costituzionale un’interpretazione in senso formale del principio di legalità non sarebbe conforme ad uno Stato di diritto, perché lascerebbe alla pubblica amministrazione un ampio margine di discrezionalità nello stabilire le modalità di esercizio del potere e nella determinazione del contenuto dell’atto.
In tal modo, si vanificherebbe la funzione del principio di legalità, perché formalmente si avrebbe una norma di azione che sostiene l’attività amministrativa, ma di fatto le modalità con cui si esplica tale attività risulterebbero del tutto discrezionali e, per ciò stesso, l’attività della P.A. risulterebbe del tutto affrancata dal predetto principio di legalità.
Il pericolo di vanificare questo principio viene, invece, meno se si segue l’interpretazione in senso sostanziale del principio di legalità.
Infatti, in questo caso, anche le modalità di esercizio del potere amministrativo, i presupposti ed il contenuto dell’atto, sia pure nelle loro linee essenziali, avranno un effettivo aggancio con la norma attributiva di potere e da ciò ne conseguirà che l’intera azione amministrativa risulterà fondata sulla legge.
In definitiva, si può dire che l’interpretazione c.d. “forte” del principio di legalità, cioè in senso sostanziale, offre piena garanzia alle posizioni soggettive dei destinatari dell’azione amministrativa.
Questi, infatti, venendo a contatto con la P.A., avranno la certezza che l’attività di quest’ultima altro non è che l’attuazione nei loro confronti di un astratto paradigma legale, già previsto dal legislatore nelle sue linee essenziali anche con riferimento al contenuto concreto della decisione ed alle sue modalità di esecuzione.
Nell’ambito di questa prospettiva di garanzia per i diritti dei singoli, si pone, in ultimo, l’intervento della Corte Europea dei diritti dell’uomo.
Secondo una consolidata giurisprudenza di questo Giudice europeo, la garanzia effettiva dei diritti fondamentali dell’uomo non può prescindere dalla ricorrenza di norme attributive di potere connotate da statuizioni chiare e precise, in grado di limitare la discrezionalità di intervento della pubblica autorità, e che, soprattutto, lascino prefigurare nei loro destinatari le conseguenze certe della loro applicazione (cfr. sentenza Digital Rights Ireland, che ha portato alla dichiarazione di invalidità della direttiva 2006/24/CE).
La chiosa del Giudice europeo sulla necessità di disposizioni normative chiare e precise completa il quadro definitorio di un principio di legalità, da un lato, ispirato al contenimento di uno spazio troppo ampio della discrezionalità amministrativa e, dall’altro, teso alla tutela delle posizioni soggettive attive di coloro che vengono a contatto con l’esercizio dell’azione amministrativa.

3.4. I destinatari del principio di legalità.
Infine, a conclusione di quanto detto sopra, si può dire che il precipitato diretto del principio di legalità, inteso “in senso sostanziale”, così come integrato dalle anzidette caratteristiche di certezza e specificazione delle norme di legge (previste dalla giurisprudenza europea), comporta che il destinatario di detto principio non è solo l’attività della P.A., ma anche l’attività del nostro legislatore.
Infatti, il principio in esame, così inteso, impone al legislatore una produzione legislativa caratterizzata da disposizioni che devono rispondere a due requisiti indefettibili. Da un lato, devono essere chiare e precise e comunque prevedibili nelle loro conseguenze, mentre dall’altro lato devono delineare, nelle linee essenziali, le modalità di esercizio del potere, nonché il modello astratto dello strumento con cui tale potere si esercita (cioè l’atto amministrativo).
Da ciò, se ne deduce che anche la tecnica di produzione legislativa non potrà sottrarsi dall’osservanza del principio di legalità inteso in senso sostanziale, altrimenti si esporrà alla violazione di specifiche norme costituzionali e comunitarie, che, come vedremo di seguito, costituiscono il fondamento normativo di questo stesso principio.

4. Fondamento normativo del principio di legalità.
L’art. 52, par. 1, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea stabilisce che eventuali limitazioni all’esercizio dei diritti e delle libertà riconosciuti dalla stessa Carta devono essere previste dalla legge e, comunque, devono rispettare i livelli essenziali stabiliti dalla Carta.
Questa disposizione costituisce il fondamento normativo del principio di legalità nell’ambito del diritto europeo.
La norma europea, infatti, pone precisi limiti all’azione amministrativa, stabilendo che essa deve essere, rigorosamente, sottoposta alla legge tutte le volte in cui sia finalizzata a restringere le posizioni giuridiche soggettive dei suoi destinatari rispetto all’ampiezza che tali posizioni rinvengono nella stessa Carta.
Nel rispetto della primazìa del diritto europeo, il predetto principio di legalità trova pieno riconoscimento nel nostro ordinamento giuridico interno, sia nella legislazione ordinaria che in quella costituzionale.
Ed invero, sul piano della legislazione ordinaria, il fondamento normativo del principio di legalità si rileva in modo piuttosto agevole nell’art. 1, comma 1, l. 241/90, secondo cui “l’attività amministrativa persegue i fini determinati dalla legge”.
Con tale norma, viene stabilito l’obbligo per l’azione amministrativa di non deviare dai fini pubblici specificamente previsti dalle singole norme attributive di potere.
Questa previsione normativa può essere intesa in tutta la sua pienezza solo con una sua lettura costituzionalmente orientata.
Per tale ragione, qui di seguito, viene effettuata una disamina delle norme costituzionali che rappresentano il fondamento del principio di legalità nel diritto amministrativo.
Tuttavia, si ritiene opportuno precisare che la Costituzione non prevede una norma che riconosca in modo espresso tale principio nell’ambito del diritto amministrativo.
Pertanto, è stato compito della dottrina individuare il suo fondamento costituzionale, ispirandosi, all’uopo, al criterio ermeneutico dell’interpretazione logico-sistematica delle previsioni costituzionali, sia pure con diversità di vedute.
In particolare, una parte della dottrina ritiene di poter individuare il fondamento del principio in esame in tutte quelle norme costituzionali che sanciscono una riserva di legge per tutte quelle attività che la pubblica amministrazione deve dispiegare nei confronti dei suoi amministrati.
Questa impostazione dottrinale fa riferimento a tutte quelle norme costituzionali che subordinano l’esercizio del potere amministrativo alla ricorrenza di una norma di legge, che abiliti la P.A. ad incidere sulle posizioni giuridiche soggettive attive dei suoi destinatari.
Tuttavia, la medesima dottrina, pur riconoscendo unanimemente che la riserva di legge costituisce il fondamento costituzionale del principio di legalità, non è però concorde nell’individuazione della norma costituzionale da ritenere come fondamento di tale principio.
Infatti, parte di questa dottrina rinviene il supporto costituzionale del principio di legalità negli artt. 13 e ss. della Costituzione, che, com’è noto, riconoscono e tutelano le c.d. libertà civili, sancendo che queste ultime possono essere ristrette solo nei casi e con le modalità previste dalla legge.
Si fa qui riferimento alla libertà personale, all’inviolabilità del domicilio, alla libertà e segretezza della corrispondenza, alla libertà di circolazione, alla libertà di espressione, ecc… .
In tutti questi casi, la previsione costituzionale di una riserva di legge implica l’indispensabilità di una norma attributiva di potere, la cui mancanza rende illegittimo ogni restringimento delle libertà individuali ad opera della P.A. .
Sempre in questo stesso ambito dottrinale si inquadra la tesi di chi, invece, riscontra il fondamento costituzionale del principio di legalità anche negli artt. 23 e 42, comma 3, della Costituzione.
L’art. 23 Cost. sancisce l’obbligo della riserva di legge per consentire alla P.A. di imporre ai suoi destinatari prestazioni personali o patrimoniali, stabilendo, per ciò stesso, il divieto per la P.A. di intervenire su tale materia in assenza di una specifica norma attributiva di potere.
Allo stesso modo, anche l’art. 42, comma 3, Cost., stabilisce che la proprietà privata può essere espropriata dalla P.A. solo nei casi previsti dalla legge e, comunque, salvo indennizzo.
Si è qui in presenza dell’ennesima riserva di legge, che legittima la P.A. ad intervenire su una specifica materia (per l’appunto la proprietà privata) solo in presenza di una norma attributiva di potere, in assenza della quale l’azione amministrativa di esproprio risulterà illegittima.
Incanalandosi in questa stessa corrente dottrinale, altri autori (Sandulli) individuano il fondamento costituzionale del principio in esame nell’art. 97 Cost., laddove sancisce una riserva di legge per l’organizzazione amministrativa.
In proposito, Sandulli fa rilevare che se la riserva di legge vale per l’organizzazione dei pubblici uffici a maggior ragione deve valere per ciò che costituisce il risultato di detta organizzazione e cioè per l’attività amministrativa.
Tuttavia, la suddetta impostazione dottrinale, che fonda il principio di legalità sulle riserve di legge imposte dalla Costituzione per supportare la legittimità dell’attività amministrativa, rivela un evidente punctum pruriens.
Ed invero, seguendo tale teoria, il principio di legalità troverebbe applicazione nei soli casi in cui la Costituzione prevede una riserva di legge per consentire alla P.A. la possibilità di incidere sulle posizioni soggettive dei suoi destinatari.
Mentre, al di fuori di questi casi tassativi di riserva di legge previsti dalla Costituzione, l’azione amministrativa non avrebbe la necessità di essere supportata da una norma attributiva di potere e di conseguenza mancherebbe anche di un paradigma legale di riferimento per quanto attiene alle sue modalità di esercizio.
E’ evidente come una tale impostazione dottrinale comporti un aumento dello spazio di intervento della discrezionalità amministrativa a discapito dei diritti e degli interessi degli amministrati.
Per tale ragione, altri autori (Garofalo) ritengono che il principio di legalità trovi il suo fondamento costituzionale negli artt. 24 e 113 della Costituzione, che com’è noto riconoscono il diritto di ricorrere al Giudice contro ogni atto della pubblica amministrazione.
Infatti, il Giudice dovrà decidere i ricorsi proposti contro gli atti della P.A. nel rispetto di quanto previsto dall’art. 101 della Costituzione e cioè avendo come suo unico parametro di riferimento “la legge”.
Da ciò ne deriva che il Giudice casserà tutti quegli atti amministrativi che risulteranno emessi dalla P.A. in contrasto con la legge.
In definitiva, tale ragionamento dottrinale porta a ritenere che, in forza degli artt. 24 e 113 Cost., gli atti amministrativi non possono essere in contrasto con la legge, ma devono essere assoggettati a quest’ultima. Ciò, è sufficiente per affermare che il combinato disposto di queste due norme costituzionali rappresenta il fondamento del principio di legalità.

5. Effetti del principio di legalità sull’azione amministrativa.
Il principio di legalità, inteso in senso sostanziale, comporta tre importanti precipitati, che caratterizzano gli atti amministrativi, cioè quegli strumenti con cui si esercita l’azione amministrativa.
In particolare, gli effetti che derivano dal principio di legalità sono i seguenti:
– tipicità e nominatività degli atti amministrativi;
– carattere eccezionale dell’esecutorietà degli atti amministrativi;
– irretroattività degli atti amministrativi.

5.1. Tipicità dell’atto amministrativo.
Come già detto sopra, il principio di legalità, inteso in senso sostanziale, comporta che la norma attributiva di potere non si deve limitare a determinare il potere e la finalità pubblica attribuita alla cura dell’Autorità procedente, ma deve anche stabilire i presupposti ed il contenuto essenziale dell’atto amministrativo.
Da tale ultima circostanza deriva che è la stessa norma attributiva di potere che, di fatto, tipicizza l’atto amministrativo con cui la P.A. esercita il potere ad essa conferito.
Infatti, la P.A. procedente, nel perseguire la finalità pubblica affidata alla sua tutela, deve utilizzare solo il modello astratto di atto amministrativo fissato dalla norma attributiva di potere, limitandosi ad adattarlo al caso concreto oggetto di sua trattazione.
In altre parole, la P. A. si deve limitare ad emettere gli atti amministrativi creati dalle singole norme attributive di potere (cioè dal legislatore) e non può creare nuove tipologie di atti.
Questi ultimi, pertanto, costituiscono un numerus clausus, perché sono solo quelli tipizzati dal legislatore.
Ed è proprio in questo senso che si parla di tipicità dell’atto amministrativo, la cui finalità ultima è quella di salvaguardare il principio di legalità nell’esercizio dell’azione amministrativa.
Infatti, l’esercizio di quest’ultima si concretizza mediante l’emanazione di atti e la loro tipicità serve, per l’appunto, per garantire che l’azione amministrativa risulti ancorata alla norma attributiva di potere non solo per quanto attiene al fondamento del potere esercitato, ma anche per ciò che in concreto viene ad essere statuito con lo strumento con cui si esercita tale potere e cioè l’atto amministrativo.

5.2. Nominatività dell’atto amministrativo.
Intimamente connesso al carattere della tipicità dell’atto amministrativo è l’ulteriore carattere della nominatività.
Infatti, la norma attributiva di potere non si limita a tipizzare il modello astratto di atto, ma provvede anche a denominare ogni tipologia di atto amministrativo da essa creato, attribuendole uno specifico nomen, ad esempio: concessione, autorizzazione, ordinanza, decreto, determina, decisione, ecc… .
E’ proprio tale circostanza che induce a parlare di nominatività degli atti amministrativi.
Mentre, la tipicità comporta che la P.A. deve emanare solo gli atti tipizzati dal legislatore, invece, la nominatività degli atti amministrativi comporta che la P.A., nell’esercizio del proprio potere, non può emanare un qualsiasi atto amministrativo tra quelli tipizzati dalla legge, ma deve emanare proprio quell’atto specificamente previsto e denominato dalla legge per l’esercizio di quel determinato potere ad essa attribuito.
Per essere più chiari, si può ricorrere ai seguenti esempi di atti “nominati”, dai quali si evince che:
– con l’atto denominato “concessione”, si esercita il potere finalizzato alla costituzione e/o
traslazione di diritti in favore dei destinatari del provvedimento;
– con l’atto denominato “autorizzazione”, si esercita il potere finalizzato alla rimozione di un limite
all’esercizio di un diritto di cui il destinatario del provvedimento è già titolare;
– con l’atto denominato “ordinanza”, si esercita il potere finalizzato all’emanazione di ordini e
divieti;
– con l’atto denominato “decreto” ovvero “determina”, si esercita il potere finalizzato all’esercizio di
atti di gestione;
– con l’atto denominato “decisione”, si esercita il potere finalizzato a decidere istanze revisionali.
Dagli esempi appena riportati ne deriva che non risulterebbe conforme al principio di legalità (nella sua accezione di nominatività degli atti) utilizzare indifferentemente la concessione ovvero l’autorizzazione per emettere un provvedimento traslativo di diritti, pur essendo entrambi i provvedimenti tipizzati dalla legge. Ed invero, tale impossibilità deriva dal fatto che, in questo caso, il potere esercitato attiene al trasferimento di diritti e pertanto, per l’esercizio di tale potere, la norma abilitante tipizza il provvedimento denominato “concessione”.

5.3. Carattere eccezionale dell’esecutorietà degli atti amministrativi.
Per forza esecutoria degli atti amministrativi si intende il potere della pubblica amministrazione di portare ad esecuzione un atto amministrativo iure imperii, cioè facendo uso della propria potestà di imperio (e quindi direttamente con i propri mezzi e la propria organizzazione amministrativa), senza fare ricorso ad alcuna decisione dell’autorità giudiziaria.
Tuttavia, i provvedimenti amministrativi hanno carattere esecutorio solo in casi eccezionali e precisamente nei casi espressamente previsti dalla legge.
Tale ultima circostanza si configura come una conseguenza diretta del principio di legalità.
Infatti, tale principio inteso in senso sostanziale, come più volte detto, richiede la sussistenza di una norma attributiva di potere che disciplini anche le modalità di esercizio del potere.
Ebbene, l’esecuzione dell’atto amministrativo in forma esecutoria (cioè mediante la potestà di imperio della pubblica amministrazione) costituisce, per l’appunto, la manifestazione di una delle modalità di esercizio del potere amministrativo.
Per tale ragione, il principio di legalità comporta che la forza esecutoria dell’atto amministrativo non è un elemento naturale di ogni atto amministrativo, cioè un carattere ricorrente dell’atto per il solo fatto che esso venga emesso dalla pubblica amministrazione nell’esercizio della sua funzione amministrativa.
Al contrario, il predetto principio di legalità implica che la forza esecutoria dell’atto amministrativo sussiste solo quando gli viene esplicitamente riconosciuta dalla norma attributiva di potere, come specifica modalità di esercizio di tale potere.
Questa conclusione, che già si desume come conseguenza diretta del principio di legalità, trova il suo espresso riconoscimento normativo nell’art. 21 ter della l. 241/90, secondo cui “ Nei casi e con le modalità stabiliti dalla legge, le pubbliche amministrazioni possono imporre coattivamente l’adempimento degli obblighi nei loro confronti. …. Qualora l’interessato non ottemperi, le pubbliche amministrazioni, previa diffida, possono provvedere all’esecuzione coattiva nelle ipotesi e secondo le modalità previste dalla legge”.
E’ evidente come il presente dettato legislativo abbia voluto recepire le istanze della giurisprudenza costituzionale, già sopra richiamate, secondo cui il principio di legalità richiede non solo la ricorrenza di una norma di legge che attribuisca il potere di agire alla pubblica amministrazione, ma richiede anche la necessità che questa norma di legge disciplini le “modalità” di esercizio di tale potere.
In altre parole, il citato art. 21 ter l. 241/90 costituisce una conferma indiretta di quanto già detto dalla Corte Costituzionale e cioè che il principio di legalità deve essere inteso in senso sostanziale e non meramente formale.

5.4. Irretroattività degli atti amministrativi.
Il carattere dell’irretroattività degli atti amministrativi, come avviene per gli altri caratteri già sopra esaminati nei due precedenti paragrafi, costituisce il portato diretto del principio di legalità.
Ed invero, per come più volte detto, quest’ultimo principio, correttamente inteso “in senso sostanziale”, impone che l’azione amministrativa è legittima solo quando sussiste una norma attributiva di potere, che, tra le altre cose, deve anche prevedere il contenuto essenziale dell’atto amministrativo.
Tenuto conto di ciò, l’applicazione del principio di legalità comporta che l’atto amministrativo può avere efficacia retroattiva solo quando sussiste una norma di legge attributiva di potere che, nel dettare le linee essenziali del contenuto dell’atto amministrativo, preveda che lo stesso possa avere efficacia retroattiva.
Ciò detto, si tratta di capire se nel nostro ordinamento giuridico sussiste una norma legislativa di portata generale, che consenta alla pubblica amministrazione l’emanazione di atti aventi efficacia retroattiva rispetto al momento della loro emanazione. Infatti, solo in caso di riscontro positivo si potrebbe ritenere che la retroattività dell’atto amministrativo si configuri come un suo elemento naturale.
Tuttavia, il nostro ordinamento giuridico non prevede una siffatta norma di carattere generale, anzi, al contrario, ricorrono due norme di segno diametralmente opposto, atteso che riconoscono il divieto di retroazione dell’atto amministrativo.
Innanzitutto, si fa riferimento all’art. 21 bis l. 241/90, secondo cui il provvedimento limitativo della sfera giuridica soggettiva del suo destinatario acquista efficacia solo dopo che viene portato a conoscenza di quest’ultimo.
E’ evidente, come l’efficacia di questa tipologia di provvedimenti (cioè quelli restrittivi) venga postergata ad un momento successivo rispetto a quello della loro emanazione. Pertanto, se così è, a maggior ragione questi provvedimenti non possono avere efficacia per un momento antecedente a quello della loro emanazione.
Questo divieto di efficacia retroattiva, previsto dal citato art. 21 bis l. 241/90 con riferimento ai soli provvedimenti restrittivi, trova invece riconoscimento generalizzato per tutti gli atti amministrativi in un’altra norma di legge e precisamente nell’art. 11 delle disposizioni preliminari al codice civile.
Quest’ultima norma, in verità, viene dettata in materia civilistica, ma in considerazione della generalità del suo portato, che si configura come principio generale dell’ordinamento giuridico, non c’è alcun dubbio da parte della dottrina e della giurisprudenza che si applichi anche nel campo del diritto amministrativo.
Ebbene, il citato art. 11 stabilisce che “La legge non dispone che per l’avvenire: essa non ha effetto retroattivo”.
Tenuto conto di quanto sancito da questa disposizione normativa, ne deriva che la norma attributiva di potere può riconoscere alla P.A. il potere di agire su una data materia solo “per il futuro”, cioè senza la possibilità di retroazione. In altre parole, l’atto amministrativo, con cui si esplica il potere della P.A., non può avere effetto retroattivo.

La ricorrenza delle due citate norme (art. 21 bis l. 241/90 e art. 11 preleggi) non esclude però che, in presenza di casi particolari espressamente previsti dalla legge, l’atto amministrativo possa avere efficacia retroattiva.
Infatti, come già più volte segnalato, il principio di legalità comporta che il contenuto essenziale dell’atto amministrativo deve essere determinato dalla norma attributiva di potere.
Pertanto, nulla esclude che, in presenza di situazioni particolari, il legislatore, nel formulare la norma di conferimento del potere, possa prevedere anche la possibilità di attribuire efficacia retroattiva all’atto amministrativo.
Ovviamente, nel caso della ricorrenza di una tale determinazione legislativa, non risulteranno di ostacolo le due norme sopra citate (art. 21 bis ed art. 11), perché esse appartengono alla categoria delle leggi ordinarie e quindi possono essere sempre derogate, in forza del principio della successione temporale tra leggi, racchiuso nel noto broccardo latino “lex posterior derogat lege priori”.
Tuttavia, è bene precisare che il legislatore, qualora si decidesse nel senso di stabilire la retroazione dell’atto amministrativo, non potrebbe farlo liberamente, ma dovrebbe valutare questa sua opzione con ogni dovuta prudenza.
Infatti, l’eventuale riconoscimento legislativo della retroattività di un atto amministrativo non si può basare esclusivamente sul principio di legalità, che, ex se, consentirebbe al legislatore di agire come meglio crede e quindi di conferire efficacia retroattiva all’atto.
Al contrario, l’eventuale decisione legislativa della retroazione dell’atto dovrà, preventivamente, valutare la refluenza che essa potrebbe sortire rispetto all’ulteriore principio giuridico della “certezza e stabilità dei rapporti giuridici”.
Com’è noto, si tratta di un principio di matrice comunitaria la cui tutela viene assicurata nel nostro ordinamento interno dall’art. 1 l. l. 241/90. La sua finalità è quella di garantire la stabilità dei rapporti giuridici che nascono dai provvedimenti della P.A., stabilità che costituisce il viatico necessario per assicurare la solidità degli scambi e dei rapporti economici di coloro che operano sul mercato comune europeo.
Ciò detto, volendo fare una reductio ad unitatem, si può dire che l’applicazione sic et simpliciter del principio di legalità consentirebbe al legislatore di poter conferire efficacia retroattiva al modello astratto di un atto amministrativo, tuttavia, tale possibilità dovrà essere esercitata dallo stesso legislatore compatibilmente con il principio di certezza e stabilità dei rapporti giuridici, onde evitare di incorrere nella violazione della primazìa del diritto europeo sul diritto interno.
Fermo restando quanto già detto sopra e cioè che solo un’espressa previsione legislativa può attribuire efficacia retroattiva ad un atto amministrativo, si deve ulteriormente ricordare che la giurisprudenza ha, comunque, individuato ulteriori casi eccezionali di retroattività.
Si tratta di atti che per la loro stessa natura non possono che avere efficacia retroattiva, quali sono ad esempio: l’annullamento di ufficio e le decisioni sui ricorsi amministrativi.
Ed ancora, la giurisprudenza ha riconosciuto efficacia retroattiva anche a quegli atti che risultano vantaggiosi per i rispettivi destinatari e che vengono emessi “ora per allora”, al fine di far loro recuperare la fruizione di un diritto a suo tempo non riconosciuto.

Conclusioni.
Il principio di legalità, attraversando una lunga evoluzione giuridica, oggi, è approdato ad una definizione che riesce a limitare l’azione amministrativa, garantendone la legittimità non solo da un punto di vista formale ma anche sul piano sostanziale.
Ciò, in quanto l’applicazione di tale principio richiede che la decisione assunta dall’Autorità amministrativa in ordine ad una fattispecie concreta deve trovare fondamento su una norma di legge, che non solo dovrà legittimare l’adozione della stessa decisione, ma anche il suo contenuto, lo strumento con cui viene assunta e le modalità con cui essa viene portata ad esecuzione.